inchiesta de L’espresso 08.11.10 – a cura di Letizia Gabaglio e Daniela Minerva Negli Stati Uniti e in Inghilterra, naturalmente. Ma anche in Australia, in Corea e perfino in Cina. I ragazzi che scelgono di studiare all’estero sono sempre di più. Ecco perché e dove. Per loro, il mondo è alla portata di un click. I ragazzi che devono scegliere oggi la carriera universitaria sono i veri nativi digitali, muovono velocemente i polpastrelli sui nuovi monitor per cercare, evidenziare, allargare un fiume sconnesso di informazioni casuali che vengono da ogni angolo del pianeta. Parlano un italiano meticcio, sincopato e abbreviato come fosse pensato per un sms e sembrano capirsi quando chattano con coetanei di mezzo mondo. Sbuffano e scalpitano pensando agli atenei nostrani, non sanno immaginarsi alle prese col mercato del lavoro italiano che sembra lo stesso che accolse i loro genitori. Perché a loro basta un click per lasciarsi alle spalle la polvere dell’Italia. Per entrare in quei mondi che sembrano fatati: Harvard, Mit, Oxford, Barcellona; o magari Tokyo, Singapore, Canberra per i più coraggiosi; e oggi anche Pechino o Seul. Perché no, allora? Perché non scegliere le biblioteche digitali, i super laboratori, i professori più famosi del mondo, e il sogno: americano, cinese o spagnolo che sia?
A sentire tutti gli addetti ai lavori intervistati da “L’espresso” per questa inchiesta basterebbe una semplice ragione: l’università italiana, con tutti i suoi guai, fornisce una buona preparazione; così buona che poi, quando vanno all’estero, i nostri giovani spesso vengono acchiappati da mercati del lavoro molto più dinamici che sanno valorizzarli; e i media parlano di fuga dei cervelli. Eppure sono più di 42 mila i ragazzi italiani che nel 2008 hanno deciso di studiare all’estero, come fotografa l’indagine “Education at a glance 2010” dell’Ocse: vanno soprattutto in Germania (più di 7.300), e in Austria (più di 6 mila), ma anche nel Regno Unito, in Francia, in Svizzera, in Spagna e negli Stati Uniti. E oggi cominciano a muoversi verso Est . Conviene o no a questi ragazzi lasciare gli atenei italiani e ripresentarsi ai datori di lavoro con un titolo inglese, americano o cinese?
La risposta degli esperti, anche a questa domanda, è pressoché univoca: conviene se si sono stufati del Paese e vogliono andarsene tout court attratti da situazioni più dinamiche. E conviene, certamente, un periodo trascorso fuori, un anno con l’Erasmus (vedi box a pag 80) ad esempio, ma anche di più: i dati del Consorzo Alma Laurea, che da anni monitora l’occupazione dei laureati, indicano chiaramente che aver fatto l’Erasmus aiuta a trovare lavoro. Ma, commenta Andrea Cammelli, direttore di Alma Laurea: “È bene che si formino qui e usino le esperienze straniere per irrobustire il lavoro fatto nei nostri atenei”.
Innanzitutto perché il mercato del lavoro italiano per lo più non è pronto ad accogliere giovani che tornano parlando una o due lingue, muovendosi in ambienti hi-tech con estrema dimestichezza, magari pieni di idee, ma anche un po’ disadattati rispetto agli equilibri nostrani. Che faticano a integrarsi. Come spiega ancora Cammelli: “Il 95 per cento del nostro sistema produttivo è fatto di piccole e medie imprese per lo più rette da dirigenti scarsamente scolarizzati. Che fanno fatica a mettersi in casa dei giovani troppo titolati. Li temono, hanno paura che terremotino gli equilibri in azienda. Chi va a fare l’università all’estero può avere degli atout per una grande impresa, la fascia alta che rappresenta ancora una fetta molto piccola del mercato del lavoro”.
La ricetta allora è già scritta: l’ateneo giusto e esperienze all’estero. E, un po’ a sorpresa, il trend è il medesimo anche per i giovani laureati in materie scientifiche che aspirano a un lavoro nell’hi-tech, il settore più internazionalizzato che ci sia. Come conferma l’astrofisico Giovanni Bignami, oggi docente allo Iuss di Pavia ed ex direttore dell’Agenzia spaziale italiana e dell’Istituto spaziale francese: “Sono poche le realtà industriali che percepiscono l’importanza di una formazione maturata all’estero, che apprezzano il valore di un dottore di ricerca. Si tratta di industrie molto brillanti disposte ad investire sulle persone”.
Scienziati itineranti
È indubbio, però, che le materie scientifiche godono di uno statuto particolare: per definizione uno scienziato è itinerante. E anche chi si iscrive a una facoltà scientifica pensando a un lavoro nelle imprese, informatiche, di hi-tech, farmaceutiche o biotecnologiche non può che giovarsi di ogni minuto trascorso nei Paesi dove nasce l’innovazione, dagli Usa al Giappone e, oggi, Cina e Corea. Come dice chiaramente Bignami: “Rimanere in Italia per la laurea triennale può essere una buona scelta, ma le cose cambiano già per il biennio successivo e soprattutto per il dottorato di ricerca”. Le mete migliori sono i Paesi che investono nella cultura e nella ricerca: Francia, Germania, Inghilterra, Svizzera, Olanda, Usa e Cina. Anche se, annota il professore: “Tutti i Paesi europei. In generale a chi volesse fare il biologo suggerirei l’Inghilterra, a chi volesse fare il chimico la Germania e per la fisica la Svizzera, la Francia”.
Anche chi volesse fare l’agronomo è bene che prepari le valigie, e proprio per prepararsi al mondo del lavoro. Come spiega Andrea Sisti, presidente del Consiglio ordine nazionale agronomi e forestali (Conaf): “È auspicabile che i ragazzi facciano delle esperienze all’estero, sempre. È preferibile studiare i primi anni in Italia, per acquisire il metodo di lavoro, perché in questo la formazione italiana è la prima al mondo. Ma poi, per migliorare il proprio profilo e cercare di offrire delle consulenze sempre più utili e innovative ai nostri clienti, è opportuno andare a scoprire esperienze diverse”. Le mete più interessanti sono l’Olanda, dove si studia la sociologia rurale, la Francia, molto avanti nel settore forestale, la Spagna, per i sistemi agroforestali.
Insomma, chi opera nei settori che necessitano di continua innovazione non ha dubbi che il know how i ragazzi devono andarselo a cercare dove si crea, e certo non è l’Italia a produrre hi-tech. Soprattutto per il mercato, come spiega Simone Maccaferri, presidente dell’Associazione nazionale dei biotecnologi italiani: “Una formazione europea è assolutamente indispensabile per dare al biotecnologo quegli strumenti indispensabili per affermarsi come professionista a tutto tondo, che non sappia solo stare al bancone, ma che possa per esempio sviluppare un’idea e renderla vincente”. Il fatto è che i laureati in biotecnologie di Regno Unito, Olanda e Svezia hanno una maggiore formazione in quegli ambiti che servono a inserirsi nel mercato del lavoro in posizioni diverse da quelle della ricerca e sviluppo: discipline come Biotech Management o Applied Biotechnology and Bio-entrepreneurship. “I punti cardine di questi corsi, imprenditorialità e project management, sono assenti o toccati in estrema marginalità nel panorama delle lauree magistrali in Italia, e presenti attualmente solo in pochissimi master di secondo livello”, spiega il professionista.
Non stupisce quindi che quasi la metà dei biotecnologi italiani abbia svolto periodi di studio all’estero e che comincino oggi a tornare persone che hanno fatto fuori dall’Italia tutto il corso. E sembra proprio sia una questione di qualità: Maccaferri annota un fatto determinante per questo settore di punta: “Mentre a livello di primo e secondo ciclo dell’istruzione universitaria, l’Italia può vantare livelli eccellenti, una mancata riforma del dottorato di ricerca è estremamente sentita. Nella maggior parte dei grandi centri di biotecnologie in Europa, sono le scuole di dottorato gli snodi cruciali per la formazione di un biotecnologo in laboratorio, grazie alla presenza di corsi teorici e pratici e di altri momenti di formazione, che spesso mancano in Italia”.
Modello di successo, con un’interazione estremamente dinamica fra pubblico e privato, è la Scandinavia. Ma anche l’Olanda e il Regno Unito sono mete pregevoli per gli aspiranti biotech.
Paese che vai avvocati che trovi
Che idea balzana andare a fare giurisprudenza all’estero, viene da pensare. Eppure, in teoria, grazie a due direttive europee, con un titolo conseguito nelle università europee è possibile esercitare in Italia. In pratica, però, la mobilità transfrontaliera degli avvocati è molto ridotta perché la legge è espressione dell’identità nazionale ed è ordinata diversamente da nazione a nazione. Lo studente dovrebbe quindi studiarsi i codici del Paese in cui si laurea e di quello in cui vuole esercitare.Eppure, annota Giuseppe Sileci, presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati.: “L’avvocato del XXI secolo deve guardare l’Europa come una prospettiva professionale: il progetto europeo richiede la creazione di uno spazio comune di giustizia e libertà entro il quale ogni avvocato deve sapersi muovere. Perciò sarebbe bene per uno studente partecipare almeno a un progetto Erasmus, che permette di conoscere realtà molto spesso diverse dalla nostra. E sarebbe utile riconoscere all’aspirante avvocato un periodo di tirocinio all’estero”. Cosa che oggi, però, la legge italiana non prevede.
Architetti in bilico
Sul fronte opposto: difficilmente ci può venire in mente qualcosa di più internazionalizzato dell’architettura? Eppure per chi se ne va, spiega Massimo Gallione, presidente del Consiglio nazionale degli architetti: “Il rischio è quello di allontanarsi troppo dalla realtà professionale italiana. A volte è difficile anche lavorare all’interno dei nostri confini, cambiando regione perché le situazioni e le regolmentazioni sono diverse. Anche per gli aspiranti architetti, dunque, la formula è: 6-12 mesi, meglio nel primo periodo di studi quando si insegnano le impostazioni generali del mestiere. E meglio in luoghi come Barcellona, Madrid, o Parigi dove si possono trovare dei corsi interessanti perché combinano materie tecniche e artistiche con maggiore concretezza. Senza dimenticare che anche il più grande urbanista rischia di mettervi in testa delle idee che, aggiunge Gallione, “poco si attagliano alla realtà italiana. Basta pensare ai problemi delle nostre città: centri storici pieni di monumenti con periferie in espansione”.
Questione di soldi
Una voce dissonante è quella di Daniele Terlizzese, presidente dell’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanza che non ha remore nel dire che sì, converrebbe eccome andare a studiare economia all’estero. Ma costa così caro che, a conti fatti, “non è ovvio che valga la pena”. Dunque, è una buona notizia ciò che segnala l’Ocse: nella maggior parte dei Paesi europei, gli studenti comunitari hanno lo stesso carico di tasse degli studenti nazionali. Non solo, annota ancora Terlizzese: “Negli ultimi anni le scuole estere (soprattutto le americane) hanno cominciato a contendersi gli studenti, offrendo finanziamenti generosi ai migliori”.
Gli atenei top statunitensi sono considerati migliori dei top europei. Nello specifico Harvard e Chicago hanno anche ottimi dipartimento di finanza, poi ci sono il Mit e Princeton. In Europa alla London School of Economics si studia sia economia sia finanza ai massimi livelli, ma ottime mete sono anche la School of Economics di Tolosa, l’University College di Londra e la Universitat Pompeu Fabra di Barcellona.
ha collaborato Annalisa Bonfranceschi