Editoriale del 26.02 – Ma che Rewind: Rewave!
da uniriot.org
Le Università si configurano di fatto come enormi agenzie per la concentrazione di manodopera precaria a disposizione dell’economia, più o meno informale, dei territori metropolitani. Ma è un reato ribellarsi alla dismissione guidata da "pizzicagnoli con il cuore a forma di salvadanaio. Surrealtà vuole che mentre a Genova venivano chiesti 4 anni e 6 mesi per Spartaco Mortola a seguito dell’assalto alla Diaz nel 2001, a Torino si apriva il processo contro 21 studenti dell’Onda accusati di qualche ruvidità nel difendersi dalle cariche di polizia durante il “G8 università” nel Luglio 2009, guidate dallo stesso Mortola (che oggi continua a coltivare la sua personalità scatenandosi contro i notav in val di susa). Il pm Sparagna sosteneva, nella sua fantasmagorica requisitoria contro gli studenti, che “da un sasso alla p38 il passo è breve”.
A parte questo ulteriore elemento di delirio surreale, ci pare invece che ad essere brevissimo sia il passaggio da un minimo di serietà alla farsa indegna: quella in cui gli studenti, che resistono alle cariche di uno dei macellai della Diaz, sarebbero criminali talmente pericolosi per la società da essersi già fatti la galera un anno fa e sopportare tutt’ora provvedimenti restrittivi della libertà.
È il caso di sottolineare come la torsione della custodia cautelare a istituto di pena anticipata sia in una tale tensione con il dettato costituzionale che dovrebbe ripugnare a ogni magistrato sinceramente democratico. Tranne quando, naturalmente, non scelga di trascendere il suo compito ed esercitare una commistione indecente tra le sue funzioni giurisdizionali e una sorta di funzioni di “polizia politica”. Si dovrà provvedere, nel caso, di un corredo indiziario che, essendo pretestuoso, sarà fatalmente tanto tenue da non poter portare a una condanna. Ecco quindi la necessità di ricorrere alla carcerazione preventiva come éscamotage per assicurare una pena relativa ad una condanna già emessa e di cifra eminentemente morale.
Questo è esattamento il caso che ci restituiva la narrativa del provvedimento che colpì i 21 studenti: un impianto ideologico nel quale il reato vero e proprio non consiste in realtà in specifici atti delittuosi ma nella resistenza, che fu sostanzialmente simbolica, all’azione della polizia. Addirittura per alcuni imputati si scriveva che, in mancanza di altro, “si deve ritenere che abbia preso parte materialmente o quantomeno moralmente”, o “seppure non veniva visto in prima persona spintonare e scalciare i poliziotti, lanciare pietre o altro… affiancava i manifestanti più attivi”.
Una sorta di colpevolezza ontologica, quindi, che fa capo alla costruzione di una narrazione del “bene” e del “male”, all’interno della quale “il male” deve essere punito per il fatto di esistere. Caselli, quindi, come Procuratore Capo di Torino e firmatario di quel provvedimento, si conferma interprete di quella polverosa tradizione di sinistra che considera nemici tutti i movimenti non assorbibili e tenta di depotenziarli con l’ombra del carcere e della repressione poliziesca che disinnesca ogni contro-narrazione dei nessi sociali e soggettivi (e si riconferma nuovamente tale proprio in questi giorni con la repressione dei movimenti torinesi e di radio black out).
In qualche modo un riconoscimento alla potenza sovversiva che l’onda – che aveva, e ha, ragione – inseriva nel processo di ristrutturazione aziendalista dell’università che di fatto la polizia difendeva. Considerando ciò che avveniva globalmente, leggendo la realtà italiana e leggendo gli atti di quel sedicente “G8 università” e dei suoi precursori era evidente la volontà di riplasmare l’università “per tutti” in un dispenser di saperi incapsulati in unità standardizzate da (ri)produrre in tempi determinati. Un dispositivo per veicolare una disciplina mentale e personale isomorfa all’alienazione della catena di montaggio.
Si tratta, più che alta formazione, di un addestramento mediante somministrazione di pillole di conoscenze propedeutiche alla capacità produttiva piuttosto che alla "capacità di cittadinanza". Accanto a ciò, il dirottamento dei finanziamenti1 verso poche università di élites considerate come i veri nodi di produzione e captazione dei saperi: università esplicitamente controllate nella loro razionalità da meccanismi di mercato2, comprensivi di una “strong protection of intellectual property rights” e di canali diretti e veloci di trasferimento “from laboratories to marketplace”.
Quindi, una conoscenza prodotta sostanzialmente all’interno del corpo pubblico e grazie alla formazione pubblica (per di più probabilmente fortemente ri-plasmata nelle sue strategia di ricerca della partnership con i privati), ma i cui risultati appartengono inesorabilmente alla sfera privata e sono quindi accessibili socialmente solo attraverso meccanismi di mercato (leggi: acquistabili). Cosa significhi questo a fronte dell’attuale crisi energetica e ambientale che impone una riorganizzazione delle strutture produttive attorno ad un nuovo paradigma energetico è chiaro3: mantenere la governance della ristrutturazione dei nessi produttivi e di controllo, riplasmando quest’ultimi in modo da mantenere la presa sul lavoro vivo e sul bios.
A grandi linee questo sembrava lo scenario futuribile, ed era più che abbastanza per esercitare una rabbia degna e legittima, tanto più di fronte a un pugno di rettori e burocrati autoproclamatesi “G8 Università”. Uno scenario certamente pessimo ma, comunque, di una certa statura. Almeno, verrebbe da dire con una battuta, tendeva a perfezionare i saperi come “merce”, cosicché avremmo forse avuto qualcosa da vendere per ricavarne del reddito. Quello cui ci troviamo di fronte ora, dopo un anno, è incommensurabilmente peggiore. Uno scenario di bassa bottega messo in piedi da “pizzicagnoli e notai dai ventri obesi e le mani sudate, coi cuori a forma di salvadanai”: uno scenario di dismissione senza altra prospettiva che la più rozza delle strategie di cassa.
Come suggerisce l’OCSE, del resto, a coloro privi di talento che abbiano voglia di risparmiare immediatamente dei soldini (leggi: di distrarre altrove la ricchezza), al costo di sfasciarsi completamente nel medio e lungo termine. Sullo sfondo, un groviglio di norme confuse determina una realtà fatta di ossimori, in primis l’obbligo ad un’autonomia resa impossibile dalla subordinazione feroce ad una selva di direttive centrali (con il MIUR subordinato a sua volta agli umori del ministero dell’economia). Il risultato netto è il blocco del turn over, la decapitazione di borse, dottorati e post-docs, un insieme di tagli agli insegnamenti e di accorpamento di corsi e dipartimenti, in attesa di capire in molte università se la sopravvivenza sarà possibile e per quanto tempo, pur prospettando aumenti vertiginosi delle tasse universitarie.
Nel frattempo gli studenti avrebbero quasi piacere di essere “lavoratori cognitivi” nel senso più intensivo del termine, ma si trovano ad esserlo nel senso più estensivo (e più povero).
Le Università si configurano di fatto come enormi agenzie per la concentrazione di manodopera precaria a disposizione dell’economia, più o meno informale, dei territori metropolitani. Ad esempio, in molte città una grossa parte del lavoro di cura e di assistenza alla persona è assicurato, attraverso le coop, dalla popolazione di studenti che per condizione oggettiva sono in grado di assicurare orari flessibili e basse pretese economiche. Un vizio che rimane poi immanente a partire dall’ingresso all’università, quando l’essere “studente” non coincide più con lo “studiare”, inteso come percorso autonomo di formazione e di appropiazione di saperi, ma diventa sempre più una generale categoria esistenziale che implica un esteso processo di training e disciplina che passa anche attraverso l’università mediante un continuo passaggio tra lauree brevi, stages, corsi di formazione e “master”. Coltivando sempre l’ansia di competere con gli studenti più giovani quando, con l’età, le esigenze di vita e la propria soggettivazione richiederebbero reddito in misura e continuità maggiori.
La dequalificazione dei saperi riprodotti all’università del 3+2 viene poi esperita in pieno da quegli studenti che intraprendono i percorsi formativi più “professionalizzanti” – tipicamente quelli a più alto contenuto tecnologico. Dopo aver investito una notevole quantità di risorse per poter concentrare il percorso di formazione nel più breve tempo possibile – un lusso che sempre meno studenti possono permettersi – al momento dell’accesso (o tentativo di accesso) al bazar del lavoro scoprono l’overeducation (in sostanza: troppi laureati rispetto ai posti disponibli), che è il nome nobile di un vero e proprio mercato delle vacche
Quei saperi, formalmente di alto livello ma in realtà ridotti a pillole cognitive somministrate durante la degenza universitaria, sempre più spesso trovano il loro utilizzo naturale in una sorta di catena di montaggio cognitiva preconfezionata, a bassa intensità di innovazione e creazione. Una catena dove la generale abilità umana di cortocircuitare e ricombinare sinapsi è il principale fattore produttivo, mediato da una blanda idea generale a proposito del background scientifico e tecnologico di riferimento. È difficile spiegare davvero in altro modo come saperi di alto livello, lauree specialistiche se non anche Ph.D., valgano un migliaio di euro al mese pur essendo impiegate nella loro specificità (del resto, non è un mistero che mediamente i capitani italiani – quel settore privato che dovrebbe essere mentore e modello dell’università – sono coraggiosi soprattutto con le prebende statali e con l’exploitation del lavoro vivo più che nello sfidare le colonne d’ercole della creazione).
E questi sono gli epigoni di un percorso di formazione sempre più mortificato, a partire dalla scuola primaria dove i “contributi volontari” (in sostanza una tassa non dichiarata) sono ormai necessari al normale funzionamento, dalle pulizie all’acquisto della carta, igienica o meno, dal riscaldamento fino allo stipendio dei supplenti, mentre tagli per miliardi di euro avvengono di fatto attraverso la non erogazione di fondi promessi ma contabilizzati come reali nella propaganda.
L’esodo da questo deserto attraverso l’autoformazione e l’hackeraggio dei saperi – che pure sono presenti all’università e spesso anche in modo eccellente – è la minima risposta di dignità che ci si possa aspettare.
Considerando tutto ciò, ci pare davvero che la vera delinquenza sarebbe dover dire di noi stessi di non aver mai perso la pazienza, di non aver mai tentato di dire “mo’ basta” e, allora, che “non venivano visti in prima persona spintonare e scalciare i poliziotti, lanciare pietre o altro… e NEMMENO affiancavano i manifestanti più attivi”.
1 Si prevedeva “[to] leverage public expenditures strategically to attract private funding in R&D, including the education sector” sullo sfondo di una “university-based public-private partnership”.
2 “[we will support] modernization of education systems to become more relevant to the needs of a global knowledge-based economy”; “Education, the enhancement of skills and the generation of new ideas are [..] key engines of economic growth, drivers of market productivity [..]”
3 Per toglierci ogni dubbio, lo troviamo scritto a chiare lettere: “private sector involvement [..] is one of the main keys to achieving an effective linkage between higher education and the needs of the global innovation society”; infatti, per assicurare che le soluzioni alle sfide di sostenibilità (sperimentate nei laboratori) siano “practically applicable and appropriate” è importante l’approvazione di “a range of stakeholders including civil society [..bontà loro] and the private sector”.
– di Luca Tornatore, ricercatore dell’Università di Trieste. – 26 / 2 / 2010