da il manifesto
di Benedetto Vecchi
Che la situazione stia arrivando al livello di guardia se ne è accorta anche la Crui, cioè la conferenza dei rettori delle università italiane. Per mesi, questo organismo che contribuisce con altri all’autogoverno degli atenei ha sempre preferito mantenere un basso profilo rispetto a quel tritatutto che è il governo di centrodestra, che per bocca di Maria Stella Gelmini e di Giulio Tremonti spaccia, attraverso annunci di grandi riforme da fare, il tossico mantra del rigore per nascondere una politica di dismissione vero la formazione, dalla scuola primaria all’università.
Per la scuola primaria e secondaria basta affacciarsi solamente a un consiglio di classe per ascoltare insegnanti che denunciano come la riforma Gelmini si traduce un peggioramento della cosiddetta «offerta formativa». Ne sanno qualcosa gli alunni, i loro genitori e quegli insegnanti precari che una firma del ministro ha gettato nella discarica della disoccupazione. Ora, dopo che anche Alma Laurea, presentando il rapporto sullo stato dell’arte dell’Università a dieci anni dall’avvio del «Processo di Bologna», lancia l’allarme che i laureati «forti» conoscono un forte aumento della disoccupazione, una contrazione dei salari e una diffusione feroce della precarietà, la Crui prende atto di ciò che ricercatori, docenti e studenti sanno già: quest’anno accademico rischia di essere ricordato come il peggiore da molti lustri a questa parte
Ma se sul versante istituzionale non giunge nulla di buono, ciò che comincia a muoversi tra i ricercatori «strutturati» e a tempo determinato lascia sperare che il periodo silente seguito alle mobilitazioni dell’Onda stia per giungere al termine. La scorsa settimana, anche se pochi se ne sono accorti, una manifestazione europea di studenti ha mandato a dire ai ministri giunti a Vienna per glorificare il processo di Bologna che quel progetto di adeguare l’università alla costruzione della società della conoscenza è giunto invece al capolinea. In Italia, e in ordine sparso, ciò che sembrava impossibile fino a pochi mesi fa sta diventando realtà. Alla Federico II di Napoli ricercatori a tempo indeterminato hanno deciso di incrociare le braccia per bloccare l’ateneo partenopeo. Una manciata di giorni dopo anche i loro colleghi torinesi hanno fatto lo stesso. Il tam-tam universitario segnala inoltre che a Cagliari e a Bologna si sono svolti o sono stati annunciati incontri per decidere qualcosa di analogo a quanto sta accadendo a Torino.
Quanto sta accadendo a Torino ha un significato politico ben preciso. È dal 2005 che i ricercatori delle università italiane non prendevano la parola. Allora avevano denunciato che la continua riduzione dei finanziamenti alla formazione si basava sul lavoro dei ricercatori, sia che fossero strutturati che precari. Ma in questi cinque anni la situazione è di gran lunga peggiorata e la speranza di poter contare sul rapporto con i docenti di riferimento per poter accedere all’università se precari o per continuare ad avere i già magri fondi di ricerca si è trasformata nel quotidiano incubo dove la precarietà non coinvolge solo il contratto di lavoro, ma l’intera esistenza. C’è poi il dato che a mobilitarsi sono i ricercatori delle discipline scientifiche, fortemente penalizzate dalla riduzione dei finanziamenti pubblici, i quali non sono state certo «sostituiti» dall’arrivo dei capitali privati, come recita la vulgata bipartisan e neoliberista che accompagna dal 1990 il governo della formazione in Italia. La decisione di incrociare le braccia è stata finora premiata da un’alta partecipazione dei ricercatori e ha avuto, almeno a Torino, anche il consenso dei docenti. Ed è una forma di lotta che si può estendere ad altre università, segnalando così che l’inverno dello scontento può lasciare il posto alla primavera dell’università italiana.