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Diventare genitori. Le ragioni dell’ “Onda” e la crisi dell’Università italiana

 questo articolo è distribuito sotto licenza creative commons

di Antonello Ciervo
 

“C’ e’ nuovamente una generazione che vuole trovarsi al bivio,

ma il bivio non sta da nessuna parte".

W. Benjamin, 1914

 
 

1. Di nuovo le Università sono in rivolta.

Dopo le manifestazioni dell’anno scorso, gli scioperi e le assemblee di studenti e precari della ricerca, la nascita del movimento dell’ “Onda” ha provocato un moltiplicarsi di organizzazioni e di gruppi che domandano autonomia e si appropriano di nuovi spazi sociali e culturali, all’esterno (occupando palazzi in disuso per farne alloggi a basso costo per studenti fuori sede), come all’interno (con corsi di “auto-formazione”) delle Università italiane.

Passata la sbornia delle “progressive ed umane sorti” dell’economia che il libero mercato ci ha propinato per oltre cinquant’anni, i “giovani” trentenni (che ormai, in Italia si è giovani fino a quarant’anni) vivono con una certa ansia la loro precaria situazione economica ed esistenziale.

Molti sono laureati, conoscono più di una lingua straniera, hanno svolto master e dottorati, spesso anche all’estero, ma lavorano all’interno delle istituzioni accademiche e di ricerca in condizioni che, per utilizzare un eufemismo, potrebbero essere definite pre-moderne.

La “riforma” Gelmini può essere considerata, a ragione, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’ennesima manovra di matrice neo-liberista che ha definitivamente incrinato il sistema universitario italiano e i cui effetti stanno portando il nostro sistema di istruzione al collasso.

Il Decreto legge n. 112, convertito in legge n. 133 il 6 agosto 2008, prevede infatti all’articolo 66 una riduzione del fondo per il finanziamento ordinario delle Università di 63,5 miliardi per l’anno 2009, che diventano 190 nel 2010, 316 nel 2011, 417 nel 2012 e 455 nel 2013, per un totale di ben 1 miliardo e mezzo di euro di tagli nell’arco di cinque anni.

A ciò  bisogna poi aggiungere, sempre ai sensi dell’articolo 16 del suddetto Decreto, la possibilità per le Università pubbliche in crisi finanziaria di trasformarsi in fondazioni di diritto privato, con una semplice delibera del Senato accademico a maggioranza assoluta dei suoi membri e con approvazione del Ministro dell’istruzione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.

A chiudere il cerchio è poi sempre l’articolo 66 del Decreto legge che prevede un blocco del “Turn-over” a tutto svantaggio dei giovani ricercatori che vedranno fortemente limitate, nei prossimi anni, le possibilità di un loro inserimento strutturale, cioè a tempo indeterminato, all’interno delle istituzioni accademiche.

Insomma si sono tagliati i finanziamenti alla ricerca e all’Università nel disperato tentativo di fare cassa e di porre così un argine agli effetti che la crisi economica globale, la più grave che si ricordi almeno dal 1929, ha scaricato sul sistema produttivo italiano.

Lo scopo di questo scritto è quello di dimostrare non solo i pericoli che un simile taglio di risorse sta causando e causerà al nostro Paese, ma anche di far emergere l’evidente insostenibilità di questa sedicente riforma, il cui fine sembra soltanto quello di adeguare la ricerca pubblica a modelli aziendali, al fine di trasformare le Università in “fabbriche del sapere”.

La prospettiva dell’analisi sarà quindi di stampo comparativo, sia sincronico che diacronico: si cercherà infatti di comparare il sistema universitario italiano con quello di altre realtà (in particolar modo quella americana) e si analizzeranno alcuni precedenti legislativi del nostro ordinamento che hanno, di fatto, aperto la strada alle più recenti “riforme” del governo Berlusconi.

2. La legge n. 133 del 2008 prevede, lo abbiamo già detto, la possibilità che le Università si trasformino in fondazioni di diritto privato, con autonomia gestionale, organizzativa e contabile finalizzata all’equilibrio di bilancio.

In pratica, agendo come un qualsiasi soggetto privato sul libero mercato del sapere, le Università – Fondazioni dovrebbero aprire le porte a quei capitali privati che vorranno investire nella ricerca scientifica. Le fondazioni universitarie infatti, come ci ricorda il comma 7 dell’articolo 16, possono adottare un regolamento di Ateneo per l’amministrazione, la finanza e la contabilità, anche in deroga alle norme dell’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, purché vengano rispettati i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario.

Insomma, è  la fine dell’Università pubblica anche perché, dati i tagli governativi al fondo ordinario, le risorse statali destinate alla ricerca di base andranno a ridimensionarsi del 10 % circa in un lustro.

Questo modello viene spacciato dal governo come l’unico modo per rendere competitive le Università, eliminando sprechi, inefficienze e baronato, rivalutando così quei settori della ricerca che possono essere in grado di agganciarsi al mondo dell’imprenditoria.

In realtà  la logica aziendale applicata all’Università avrà come primo risultato quello di distruggere la ricerca in ambito umanistico: difficilmente infatti una fondazione bancaria finanzierà un progetto di ricerca a medio termine sulle fonti del diritto romano nella tarda antichità e difficilmente una piccola impresa del Nord-Est sosterrà un progetto di ricerca, ad esempio, in filosofia teoretica.

In pratica tutti quegli ambiti di studio e di ricerca i cui “prodotti” non sono immediatamente spendibili sul libero mercato, correranno il rischio di esaurirsi in breve tempo per mancanza di fondi.

Se si guarda poi al recente passato della nostra legislazione, è possibile verificare come in realtà un processo di apertura delle Università al capitale privato si era già previsto nella legge finanziaria per il 2001, all’articolo 59, terzo comma (legge n. 388 del 2000), oltre che nel Decreto del Presidente della Repubblica n. 254 del 24 maggio 2001, che dava attuazione al suddetto articolo.

In quella circostanza infatti, l’allora governo Amato aveva previsto che le Università potessero, in collaborazione con soggetti privati, costituire delle Fondazioni parallele alla struttura organizzativa accademica, al fine di acquisire una serie di immobili serventi le attività di insegnamento ovvero la creazione di istituti di ricerca privati.

Perché  il governo Amato consentì la creazione di questa particolare tipologia di fondazioni?

Innanzitutto perché la Fondazione è l’unico tra gli enti previsti dal Codice civile che assicura l’effettiva destinazione di un patrimonio agli scopi statutari. Ciò garantisce che la Fondazione universitaria possa esercitare stabilmente la propria attività, evitando non solo che gli obiettivi di ricerca o di acquisto di immobili creino un aggravio ulteriore al bilancio dell’Ente pubblico, ma anche che gli amministratori privati della Fondazione interferiscano nelle scelte accademiche dell’Ateneo.

Le Università quindi, attraverso questo nuovo strumento giuridico, avrebbero potuto partecipare direttamente all’organizzazione ed alla gestione della Fondazione, pur continuando a godere della loro piena autonomia organizzativa e finanziaria.

La scelta del governo Amato quindi, per quanto discutibile, era comunque finalizzata ad incentivare l’azione sul mercato di quelle Università capaci di catalizzare capitali privati, continuandone a garantire l’autonomia, così come previsto dall’Articolo 33 della Costituzione.

Siamo insomma di fronte a due visioni politiche agli antipodi l’una dall’altra: da un lato infatti, con la riforma del governo Amato del 2000, si è introdotto un istituto giuridico che permettesse alle Università pubbliche di operare sul mercato attraverso strutture para-accademiche, con l’obbiettivo dichiarato di attrarre capitali privati a fini di ricerca; dall’altro invece, con la “riforma” Gelmini del 2008, si è di fatto avallata la possibilità di privatizzare l’Università pubblica tout court.

Bisogna aggiungere però che la stessa legge del 2000 non ha dato i frutti sperati: molte infatti sono state le Università che hanno creato fondazioni, ma la maggior parte di esse sono state utilizzate per acquisire immobili destinati a divenire studentati o aule dove poter seguire i corsi. Anche quelle fondazioni che hanno cercato di catalizzare capitali privati per progetti di ricerca, ad oggi, o hanno un bilancio negativo, oppure sono riuscite sostenere progetti di ricerca di breve periodo1.

La privatizzazione completa dell’Università pubblica insomma, anche alla luce dei fallimentari esperimenti di tipo misto qui analizzati, appare un vero e proprio mostro giuridico, frutto della peggiore concezione liberista della società e dello Stato. Le televisioni ed i grandi mezzi di comunicazione negli ultimi mesi poi hanno provato a persuaderci che una simile privatizzazione era assolutamente necessaria, perché in tutti i Paesi occidentali le Università camminano sulle loro gambe e non hanno bisogno di alcun tipo di aiuto statale, né per fare ricerca, né per autofinanziarsi.

In questa sede mi limito semplicemente a riportare alcuni dati che emergono dalla lettura del bilancio 2007 dell’Università di Harvard, la più importante Università del mondo, per qualità della ricerca e per “giro d’affari”2. Ebbene, i finanziamenti federali (cioè pubblici) alla sola Università di Harvard da parte del governo statunitense ammontano per l’anno accademico 2005/2006 a circa 494 milioni di dollari, per il 2006/2007 a circa 514 milioni dollari e per il 2007/2008 a circa 535 milioni di dollari. Nel corso di tre anni accademici, in pratica, i finanziamenti federali all’Università di Harvard sono aumentati del 10 % circa, una cifra enorme se si pensa che la Presidenza Bush in quel periodo aveva ridotto notevolmente la spesa pubblica destinata a sostenere il sistema di Welfare.

Per quanto riguarda i finanziamenti alla ricerca, il bilancio del 2007 di Harvard ci segnala, nello specifico, che l’ 82 % dei finanziamenti è di fonte federale (cioè pubblica), il 12 % proviene da Fondazioni private che erogano borse di studio e sostengono cattedre con il proprio nome ed il 6 % da compagnie private.

Il 78 % dei fondi pubblici alla ricerca proviene dal NIH, l’Agenzia governativa per la Sanità che ha stanziato un ingente quantitativo di denaro per una serie di studi altamente specializzati sull’AIDS. Il 7 % dei fondi proviene invece dall’Agenzia governativa per le Scienze e la Tecnologia, mentre il restante 15 % proviene dal Dipartimento della Difesa, da quello dell’Energia, da quello per l’Educazione, oltre che dalla NASA.

Insomma, è senza dubbio vero che le Università americane riescono a catalizzare molti capitali privati (e Harvard ne è una prova evidente), ma resta il fatto che comunque tale cifra si attesta intorno al 18 % dei finanziamenti totali, mentre più dell’ 80 % dei fondi per la ricerca proviene dalle casse dello Stato federale.

L’Italia invece, grazie ai tagli governativi dello scorso anno, è in contro-tendenza anche rispetto agli altri partners europei: il nostro Paese infatti si appresta a diventare fanalino di coda per il numero di risorse pubbliche destinate alla ricerca. Se infatti la media OCSE, per quanto riguardo il rapporto spesa per la ricerca/PIL, è pari all’1,5 % (notevolmente inferiore a quella degli Stati Uniti che è pari al 2,9 %), l’Italia si attesta allo 0,9 % e quest’anno la cifra dovrebbe scendere ancora per assestarsi allo 0,7 %, ben al disotto di paesi come la Grecia, il Portogallo e persino la Turchia, la Polonia e l’Estonia.

Non bisogna dimenticare inoltre che a Lisbona, l’Unione Europea aveva indicato nel 3 % del PIL la spesa ottimale che ogni Stato membro avrebbe dovuto destinare alla ricerca: non c’ è da stupirsi allora se, provocatoriamente, molti ricercatori precari dell’ “Onda” hanno chiesto asilo politico a Bruxelles per poter continuare a svolgere i propri studi.

Infine, per quanto riguarda il blocco del “Turn-over”, originariamente la legge 133 impediva alle Università di assumere personale in numero superiore al 20 % delle unità cessate nell’anno precedente, stabilendo così un rapporto di 1 a 5 tra ingresso in ruolo dei giovani ricercatori e ordinari che andavano invece fuori ruolo.

Successivamente poi, con il decreto legge n. 180 del 10 novembre 2008, si è impedito alle Università con il bilancio in rosso di indire nuove procedure concorsuali, riservando un bonus di finanziamento a quelle Università che, avendo un bilancio positivo, semplicemente per questo motivo potevano considerarsi virtuose.

La classifica degli Atenei virtuosi, stilata dal MIUR e fatta circolare sui media alla fine del mese di luglio 2009, è stata oggetto di numerose critiche non solo per quanto concerne la validità dei criteri utilizzati per stilarla, ma anche perché è sulla base di questa graduatoria che le c. d. Università “virtuose” potranno toccare il tetto massimo del 50 % di spesa per l’assunzione di nuovo personale, in quanto il 60 % di questo bonus è dedicato all’assunzione di ricercatori sia a tempo indeterminato, sia a tempo determinato3.   

3. A fronte di questo quadro giuridico ed economico desolante, i “giovani” ricercatori precari sono scesi in piazza e hanno incominciato ad opporsi alle distruttive politiche neo-liberiste del governo Berlusconi. Molto si è detto e discusso sui giornali e, più in generale, sui media di queste rivolte e del movimento dell’ “Onda”.

Innanzitutto bisogna fare una precisazione che sembrerà banale, ma è sempre meglio tenerla bene a mente: in Italia non esiste una stampa libera e non c’è un sistema radio-televisivo veramente democratico. La stessa persona infatti non solo è proprietaria di tre reti televisive, in quanto privato imprenditore, ma controlla altrettante reti televisive pubbliche, attraverso la maggioranza parlamentare ed il governo di cui è Capo. Sempre la stessa persona inoltre controlla la maggior parte della carta stampata e dei rotocalchi di opinione e gode di un monopolio di fatto, per quanto riguarda la pubblicità editoriale. Eccezion fatta quindi per il gruppo De Benedetti ed RCS, per qualche giornale di partito e qualche vecchio quotidiano vicino, per convinzione ed ostinazione, ai movimenti sociali, la maggior parte delle testate giornalistiche, così come del resto il 90 % delle reti televisive nazionali, è di proprietà o è comunque controllato (direttamente o indirettamente) dalla stessa persona, in barba al libero mercato ed alla concorrenza perfetta.

Non c’è da meravigliarsi quindi che il movimento dell’ “Onda” sia stato democraticamente manganellato da televisioni e giornali. I precari della ricerca sono stati definiti nei modi più disparati: velleitari, inconcludenti, figli minori del ´68 e quindi completamente fuori dalla storia, sovversivi o addirittura brigatisti in potenza.

Del resto anche quella stampa, come dire, certo non contraria alle ragioni della protesta, ha etichettato studenti e ricercatori precari come giovani senza né arte né parte, che magari farebbero meglio a stare zitti e a svolgere seriamente la loro attività di ricerca non pagata, piuttosto che perdere tempo ad organizzare inutili manifestazioni di protesta: la politica ai politici insomma, la precarietà ai precari (del resto non è stato il vecchio centro-sinistra ad aprire, con leggi mirate, il vaso di pandora della precarietà lavorativa ?).

I partiti di Sinistra, bisogna ricordarlo, non ci sono più in Parlamento e di questo non c’è da meravigliarsi: la Sinistra oggi non rappresenta più nessuno e nessuno vuole più farsi rappresentare da un gruppetto di funzionari rinchiusi da anni in qualche polverosa segreteria di partito.

La sinistra insomma negli ultimi anni è diventata davvero “sinistra”.

Del resto, se una forza politica che decide di rappresentare i più deboli e quei gruppi sociali che sono privi di diritti, (persone, per intenderci, che a stento guadagnano 1000 euro al mese, con un contratto precario che viene rinnovato, quando va bene, quattro volte in un anno); se, dicevo, questa forza politica fa le sue conferenze stampa in qualche bel locale trendy di Via Veneto o discute degli eleganti doppio petto in cashmere del suo segretario, mi sembra che ci sia ben poco da essere rappresentati.

Il movimento dell’ “Onda” quindi ha deciso di fare a meno della Sinistra istituzionale, ormai ridotta al ruolo di convitato di pietra, e ha deciso di iniziare a far politica da sola.

E’ evidente che questo può creare qualche imbarazzo: “… solo la politica può dare carattere generale alle istanze di questo movimento; solo la politica può eseguire ciò che questo movimento legifera; solo la politica può dare gambe e continuità a questo movimento. Invece no, si tratta di qualcosa di molto più semplice, dice l’uomo o la donna di partito: senza assegnare al movimento una condizione di minorità politica io non avrei più nulla da dire né da fare nella vita e dovrei cercarmi un lavoro. Ancora meglio: se i deboli sono diventati forti e dunque il movimento è in grado di fare politica da sé, io non posso più rappresentare i deboli e quindi la mia funzione diviene socialmente inutile”4.

E allora cerchiamo di capire perché i partiti politici di Sinistra stanno diventando socialmente inutili.

Nel novembre dell’anno scorso si è svolto, all’Università “La Sapienza” di Roma, un incontro tra le varie anime del movimento, un incontro che è stato giustamente definito come una sorta di “Stati generali” della ricerca precaria italiana. Realtà e gruppi diversi provenienti da tutto il Paese si sono riunite nella Capitale per due giorni di dibattiti, approfondimenti ed incontri, per discutere insomma delle sorti dell’Università e della ricerca pubblica, all’indomani dei tagli governativi.

Dopo un’assemblea generale plenaria, si sono organizzati tre workshops di studio per approfondire una serie di problematiche legate all’Università ed alla precarietà del mondo lavorativo. Uno di questi workshops, il terzo, era proprio dedicato al tema “Ricerca, formazione e lavoro”: al termine dell’incontro, durato più di sei ore e che ha visto intervenire almeno un rappresentante di ogni Ateneo italiano, è stato stilato un documento molto importante, una sorta di contro-riforma pensata dai ricercatori precari per i ricercatori precari.

Non si è  parlato di rivoluzione o di presa del Palazzo di inverno ma semplicemente del nostro futuro, di quelle che possono essere oggi le prospettive di lavoro e di studio per “giovani” trentenni che hanno deciso, nonostante tutto, di rimanere nel loro Paese, di continuare a studiare e a fare ricerca.

Poiché, anche grazie alle “riforme” del governo Berlusconi, questo futuro tarda ad arrivare, i giovani ricercatori precari presenti all’incontro hanno pensato bene di ridisegnare le traiettorie delle loro vite, definendo una serie di alternative all’eutanasia della ricerca pubblica.

Si badi, la prima critica per la disastrosa situazione dell’Università italiana è stata rivolta innanzitutto nei confronti di chi, nel corso di questi anni, l’Università l’ha gestita “… con meccanismi corporativi e clientelari, di chi soffoca la ricerca per mezzo di un’opprimente gerarchizzazione, di chi ha costruito un sistema fondato sullo sfruttamento generalizzato del lavoro precario, di chi ha oramai accettato l’idea di un drastico restringimento dell’accesso a un’istruzione pubblica di qualità”5.

Si è  passati poi a definire un quadro di riforme possibili, proprio perché  non si tratta di opporsi a tutto e a tutti per partito preso, né di scadere in un vuoto “studentismo”6.

Si tratta invece di definire le linee programmatiche di una “autoriforma”: “Autoriforma è il percorso concreto di elaborazione, d’inchiesta e di conflittualità che mette in crisi il sistema attuale, che propone un modello diverso di università attraverso una critica radicale dell’esistente. Vogliamo costruire un’università pubblica, democratica ed accessibile a tutti.

Per questo sentiamo l’urgenza, in questa fase di crisi profonda del modello sociale ed economico neoliberista, di un’università che sappia dare il suo contributo alla costruzione di un nuovo e più equo modello di sviluppo”.

Ecco di seguito una serie di punti fondamentali che possono essere considerati una sintesi degli obiettivi di questa autoriforma:

a) innanzitutto, la ricerca non può essere in alcun modo subordinata alle logiche del mercato, perché il sapere è un bene pubblico ed una produzione collettiva inappropriabile.

La ricerca non può quindi essere soggetta a criteri di valutazione di tipo aziendalistico: le Università non sono migliori soltanto se producono più brevetti, più pubblicazioni o più progetti di ricerca spendibili sul mercato.

b) La ricerca non può essere svolta a titolo gratuito: al lavoro di ricerca deve corrispondere un salario adeguato e i diritti stabiliti dallo Statuto dei lavoratori, ogni attività deve essere contrattualizzata e deve essere garantita la continuità del reddito.

Il movimento ha così fatto chiarezza su di un punto fondamentale: cosa succederebbe infatti nelle Università italiane se tutti i ricercatori precari, assegnisti e dottorandi, e comunque tutti i non strutturati privi di un regolare contratto, decidessero di non svolgere più esami ? Quante regolari commissioni d’esame si costituirebbero nelle Università italiane ? Se tutti i precari dell’Università decidessero di fare, come del resto si è fatto in alcune realtà, uno sciopero bianco degli esami, l’intero sistema universitario si incepperebbe all’istante.

c) Valorizzazione del titolo di Dottore di Ricerca, soprattutto all’interno del mercato del lavoro e riconoscimento di uno statuto nazionale per tutti i dottorandi; ferma opposizione al blocco del “Turn-over”, definizione legale di un contratto unico di lavoro subordinato post-dottorato non inferiore a due anni, a cui va affiancato (e le due riforme vanno di pari passo) un reclutamento ordinario, in via concorsuale, costante nel tempo.

Sulle modalità  con cui si dovrebbe svolgere il reclutamento ordinario, diversi sono stati i punti di vista e, bisogna riconoscerlo, non si è riusciti a definire una posizione comune all’interno del movimento. Ad avviso di chi scrive, il ritorno al concorso nazionale non potrebbe essere una opzione da scartare completamente: in questo modo infatti si incentiverebbe la mobilità degli studiosi e molte realtà universitarie potrebbero diventare meno provinciali.

d) Infine, garantire la rappresentanza dei ricercatori precari all’interno degli organi decisionali sia di Dipartimento sia di Facoltà, nonché una maggiore rappresentanza femminile nel mondo della ricerca: spesso infatti, la maternità diventa lo strumento più efficace nei confronti delle donne per espellerle dalla realtà accademica.  

4. In un saggio di Wu ming 1 dal titolo Noi dobbiamo essere genitori, apparso nel volumetto Einaudi dedicato al movimento del New Italian Epic7, l’autore, al secolo Roberto Bui, cita un’intervista rilasciata, nel corso dell’estate del 1993, dal grande romanziere statunitense David Foster Wallace a Larry McCaffery, giornalista della Review of Contemporany Fiction.

In questa intervista, Foster Wallace risponde in maniera illuminante ad una domanda dell’intervistatore sulla cultura letteraria (e non solo) degli ultimi 20 anni e formula un primo bilancio sugli effetti del postmodernismo sulla letteratura mondiale.

La metafora dello scrittore americano è molto suggestiva, per fantasia e per profondità:

    “Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se ne è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco.

    Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi o rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ di ordine […].

    Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse. L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione.

    Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire: c’è qualcosa che non va in noi? Cosa siamo, delle mezze seghe? Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori (g. m.)”.

 

Credo che questa immagine molto forte di David Foster Wallace si possa riferire tranquillamente anche alla situazione culturale e politica che stiamo vivendo, almeno da un decennio, in Italia.

In un Paese che sembra aver superato ormai ogni limite alla decenza pubblica ed allo sfruttamento sociale, in un Paese in cui dei grandi partiti politici della Sinistra non è rimasto più nulla e a nessuno sembra più interessare la parola “diritti”, l’unica reale forza di opposizione alle politiche neo-liberiste del governo Berlusconi è stata il movimento dell’ “Onda”.

Questo movimento è riuscito da solo a definire le linee di una contro-riforma universitaria che ha come unico obiettivo quello di salvare quanto ancora di buono c’è nel nostro Paese e di provare a investire risorse ed energie nel futuro dei giovani, attraverso riforme coraggiose e serie, di lungo periodo.

Il discorso per il movimento si fa ora sempre più politico: bisogna mirare infatti alla definizione di un’organizzazione solida del movimento che sia in grado di incidere sui conflitti sociali che stanno emergendo con maggior forza negli ultimi mesi, al fine di porre un argine alla deriva politica del berlusconismo nei confronti dell’Università e della ricerca.

Diventare genitori oggi, per parafrasare Foster Wallace, significa avere la consapevolezza che soltanto il movimento rappresenta il mondo della precarietà e di chi non possiede alcun tipo di diritti sul proprio posto di lavoro.

Farsi carico di questa rappresentanza significa oggi essere responsabili innanzitutto nei confronti di noi stessi, di fronte ad un futuro che si vorrebbe, da parte dei partiti politici sia di Destra che di Sinistra, fortemente precario.

Farsi carico di questa rappresentanza e diventare responsabili nei confronti della nostra generazione significa inoltre incominciare un nuovo percorso di lotte, che porti i nuovi soggetti lavorativi, nati dalla crisi del modello fordista, ad assumere una posizione politica egemone all’interno del conflitto sociale, per combattere la precarietà in tutte le sue forme e per garantire nuovamente reddito e diritti a chi lavora.

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