da infoaut.org
Il ddl torna all’esame della Camera…
…ma determinanti saranno l’autunno e le lotte in grado (o meno) di rivoltarglisi contro!
Come al solito in piena estate, lontani/e dalle proteste che ne hanno accompagnato ogni passaggio parlamentare (e ogni sortita pubblica della ministra) è passata ieri sera [29 luglio] al Senato la più osteggiata riforma del sistema formativo che la storia italiana ricordi. Tre i grossi punti su cui si abbatterà la riforma: uno relativo alla temporalità degli incarichi, tanto per i ricercatori quanto per i rettori (ma con le scontate -differenti- ricadute!); il "pugno di ferro" per gli atenei "in rosso" (che in soldoni vorrà dire tagli a monte e amministrazione aziendale a valle); logica meritocratica tutta finalizzata all’aumento/assunzione di modelli competitivi in un contesto in cui, lo dimostrano secoli di pratica, paga molto di più la crescita collettiva, socializzata, in comune.
Di fronte a una riforma che abbasserà nei fatti l’accesso all’istruzione universitaria una raggiante ministra Gelmini in Senato ha espresso "grande soddisfazione per l’approvazione del ddl", definendolo -nientemeno – "un evento epocale che rivoluziona i nostri atenei e che permette all’Italia di tornare a sperare"…!?!
In cosa, bene, non si sa!
1. Il primo punto su cui insiste una compagine di governo oggi prioritariamente impegnata in ben altri grattacapi è quello relativo alla temporalità degli incarichi, interpretato come coraggioso gesto contro la "mentalità corporativa" che caratterizza il mondo accademico. Come se questo fosse un tutt’uno segnato da identici carichi di lavoro, potere e prospettive e non un ambito tagliato trasversalmente da differenti posizionamenti e pesi dentro la gerarchia interna agli atenei. L’intervento detto "sulla governance" fissa ad 8 anni la durata massima dei mandati dei rettori (contro le attuali cariche anche oltre i 20 anni), introducendo la possibilità di sfiduciare i magnifici ad opera del Senati Accademici. La logica temporale (buona a parole contro i rettori – ma quante e quali saranno le leve del potere e di influenza che continueranno a controllare?) si scaricheranno anche contro i ricercatori: uomini e donne abituati talvolta anche a due decenni di pratica prima di poter sperare in un concorso, avranno dal prossimo anno solo più sei anni per riuscire a fare propria l’abilitazione all’insegnamento come associato. In caso contrario, non potranno più continuare l’attività accademica. Nessuna buona notizia neanche per i precari: l’accesso alla docenza non prevede infatti deroghe o sanatorie per i circa 20mila attuali ricercatori a tempo determinato. L’iter che saranno chiamati a seguire è lo stesso di quelli che approdano oggi negli atenei: per tutti c’è il rischio fondato (attualmente i posti destinati al turn over sono appena il 20%) di rimanere esclusi per sempre dall’attività accademica. Cambiano anche le norme sulla composizione dei consigli di amministrazione, che dovranno avere obbligatoriamente avere un minimo di 3 componenti esterni se i membri sono 11 in totale, 2 se sono meno di 11. Fra questi, diversamente da quanto prevedeva il testo originario, non vanno computati i rappresentanti degli studenti, con buona pace delle tante listine di sinistra che vorrebbero tanto "cambiare le cose dall’interno", obbligate nei fatti a trasformarsi in co-gestori di una crisi che invece lassù hanno tutte le intenzione di far pagare a noi…
2. Malcelata, anzi rivendicata come manovra anti-sprechi, è poi la grossa scure di tagli pronta ad abbattersi su molti atenei del paese. Per "risparmiare risorse" la nuova legge prevede la fusione degli atenei più piccoli e la razionalizzazione delle facoltà, che per ogni ateneo non potranno essere più di 12. Saranno inoltre passati in rassegna tutti gli oltre 500 corsi di laurea oggi attivi in Italia, con l’obiettivo dichiarato di "eliminare tutti quelli considerati antieconomici"; tanto per cominciare, e per quelli con problemi di bilancio, è previsto subito il commissariamento. Sulla falsa riga dell’orientamento preso tre anni fa, le università che continueranno a utilizzare più del 90% dei finanziamenti statali per le spese fisse (personale e ammortamenti) verranno inibite dal bandire concorsi per nuove assunzioni. Nei fatti, si assisterà alla più piena irreggimentazione economica delle università, venendo meno qualsiasi principio d’investimento sociale complessivo su formazione e ricerca. Il testo della legge di riforma recepisce inoltre un emendamento proposto dal senatore del Pd Ignazio Marino che cambia il sistema di assegnazione dei fondi per la ricerca. Il capitale di circa 1 miliardo di euro fino ad oggi veniva gestito dai singoli direttori di dipartimento, ora una commissione di pari, formata per un terzo da docenti "esterni" (chissà da dove arriveranno questi supposti soggetti neutrali e disinteressati?!), stabilirà quali progetti di ricerca e in che entità, devono essere finanziati.
3. Meritocrazia. Se l’imposizione economicista di copiosi tagli è il dato concreto di questa riforma e l’aziendalismo la logica che informerà compiutamente fin nei minimi dettagli la gestione degli atenei, l’architrave retorico-discorsiva che sorreggerà l’università di domani è invece da ricercarsi nel mai troppo decantato "merito", inattaccabile (soprattutto per colpa dei precedenti governi di centro-sinistra che ne hanno spianato la strada) categoria di misurazione delle capacità-successi-rischi-crescita degli studenti e delel studentesse. Il merito, leitmotiv della ministra e del suo governo, sarà sempre più determinante anche per la carriera degli studenti: coloro che dimostreranno maggiori capacità e competenze, attraverso le risposte a test nazionali standardizzati, saranno beneficiari di un fondo (statale, ma anche regionale ed eventualmente privato) che erogherà borse di studio. Il tutto, a prescindere dal livello economico della famiglia di provenienza. Come si vede, e come già si sapeva fin dalla presentazione della prima bozza -e nonostante gl’insignificanti emendamenti "di correzione" -, il ddl che ora tornerà all’esame della Camera è un marchingegno legislativo volto alla definitiva aziendalizzazione del comparto Formazione e al completo disciplinamento del corpo studentesco inteso come mero esecutore-riproduttore obbediente di capacità-umana mercificante e mercificata.
Nei dettagli, per pura precisione di cronaca, l’aula di Palazzo Madama ha approvato il ddl Gelmini con 152 si’, 94 no e un astenuto. Hanno votato a favore Pdl, Lega, Alleanza per l’Italia (Rutelli) e Svp. Voto contrario invece di Pd, Udc e Italia dei Valori. Il provvedimento, come si diceva, ora passa all’esame della Camera. Ma quel che è certo è che i soli bastoni tra le ruote a questa degradazione complessiva, potranno essere solo quelli messi di traverso nelle piazze e nei corridoi delle facoltà; da chi l’università, in questi anni difficili, ha provato a farla propria, ripensandola dal basso, contro tutte le "inevitabili" cure dimagranti allestite dall’alto.
Arrivederci in autunno allora…