di Farco La Cecia da ilsole24ore.it
Sono entrato all’università come ricercatore 35 anni fa e ne sono uscito sempre come ricercatore, senza il minimo avanzamento, un anno fa. Ho scritto 20 libri di cui almeno quattro adottati come testi fondamentali in Italia e all’estero nei corsi di antropologia, di gender studies, di antropologia urbana e di linguistica. Ho fatto cinque concorsi per diventare professore e sono stato respinto in tutti e cinque senza che nemmeno mi arrivasse una comunicazione ufficiale.
Questa mia banale vicenda biografica non avrebbe importanza se non aprisse uno spaccato esemplare sulla storia recente dell’università italiana e se non servisse a quelli più giovani di me a farsi due conti su come vanno le cose nell’accademia. Avrei voluto essere giudicato sui miei lavori, sulle mie ricerche, o magari sull’effetto che i miei corsi facevano agli studenti, corsi che da buon ricercatore ho accettato per decenni di fare sostituendo in questa funzione i pochi professori di ruolo. Ma no, nessun giudizio scientifico o di efficienza. Sulle “opere” c’era una generale concordanza come si fa quando si trattano gli sforzi giovanili di qualcuno strano e un po’ fuori dal giro, sull’efficienza il semplice uso. Gli servivo, all’università, per riempire enormi buchi e servire grandi folle: alla facoltà di architettura di Venezia arrivavo ad avere 500 studenti e a fare mille, 2mila esami per sessione. Credo di avere formato almeno quattro generazioni di ricercatori, gente che si è appassionata come me alla relazione tra le scienze umane e la città e con cui sono diventato amico, con cui ho lavorato e continuo a lavorare.
L’esemplarità della mia vicenda accademica l’avrei dovuta subodorare però dall’inizio. Il mio primo direttore d’istituto, Salvatore Boscarino, al dipartimento di architettura dell’università di Catania mi disse accogliendomi: «Spero lei sia di famiglia benestante, perché altrimenti non capisco come potrebbe fare questo lavoro». La mia risposta pratica era che facevo l’autostop per tornare a casa a Palermo alla fine della settimana e che a Catania dormivo nelle ultime stamberghe o addirittura clandestino nelle case in costruzione del padre di uno dei miei studenti.
Trentacinque anni dopo, un altro direttore d’istituto in una facoltà di filosofia ha chiuso la mia storia con l’università in modo altrettanto esemplare. Mi ha mandato una lettera di rimproveri perché mi ero permesso durante le vacanze di Natale di andare a fare «lavoro sul campo» in mezzo ai pescatori siciliani emigrati a Nantucket. Per lui era inconcepibile che non glielo avessi comunicato. La mia risposta sono state le dimissioni. In mezzo c’è stato di tutto, soprattutto una furibonda passione per la ricerca, una voglia matta di formare ad essa studenti intelligenti, una lotta all’ultimo sangue per svecchiare strutture accademiche inadeguate.
Quando arrivai alla facoltà d’architettura di Venezia, offersi alla biblioteca del dipartimento la mia personale libreria, la più completa in Italia sull’architettura vernacolare e sulle tecniche tradizionali di costruzione. Venne rifiutata. Organizzai un convegno internazionale sui «Bambini e la strada». Francesco Dal Co, allora direttore dell’istituto si lamentò pubblicamente che una facoltà d’architettura si abbassasse a occuparsi di temi così marginali. Qualche anno prima, con Paolo Fabbri, al dipartimento di comunicazione dell’università di Bologna, avevo organizzato un convegno su «Cavoli a merenda, gusto e sistemi mentali e culturali». E un altro su «Media e natura». La risposta dell’università fu sospetto, indifferenza, fastidio.
Mi si rimproverava di non essere affiliato a nessun vero docente locale, di avere a che fare con l’École des hautes études di Parigi e con Ivan Illich che allora insegnava a Berkeley, ma di non essere consono alle logiche di dipartimento. Mi si faceva sapere di essere inviso al grande padre padrone dell’antropologia siciliana a cui non avevo mai dichiarato affiliazione pur essendo siciliano (cosa che era davvero imperdonabile). Fin quando un giorno, durante un congedo legalmente chiesto per dare una mano a Paolo Fabbri nella sua nuova veste di direttore dell’Istituto italiano di cultura a Parigi, il mio registro delle presenze sparì e venne da “qualcuno” inviato al Consiglio nazionale universitario (Cun), perché venisse avviato un procedimento disciplinare.
Il Cun mi convocò e mi chiesero: «Chi è che la odia cosi tanto? Una cosa del genere come quella che le hanno fatto è inconcepibile. Noi le consigliamo di trasferirsi in situazioni dove c’è minor tensione». Nel frattempo chi avrebbe dovuto mandarmi una certificazione di sostegno, il Fabbri per cui lavoravo, se ne dimenticò, assorto in logiche ben più degne e mi trovai così traghettato tra gli archeologi di Ravenna. La mia collocazione risultava sempre più strana, mi permettevo non solo di avere una dimensione internazionale – i miei libri venivano tradotti – ma di essere a cavallo tra varie discipline, antropologia, urbanistica, linguistica, geografia con scorno e scandalo di tutti coloro che se ne sentivano legittimi rappresentanti.
Gli archeologi mi accettarono in cambio di una presunta fedeltà a logiche un po’ più segrete di quelle che pensavo dovessero esistere in un’università. Ai loro presidi interessava nulla quello di cui mi occupavo, ma soltanto la mia capacità di umiliarmi di fronte a loro. Appena potei mi feci ritrasferire, non senza avere messo a profitto almeno un po’ di lavoro scientifico con un archeologo strano e poco ortodosso, Maurizio Tosi, con cui scrissi due libri sull’Afghanistan. Io volevo disperatamente lavorare in antropologia, avere l’occasione di svecchiare una logica che in questo campo in Italia era in estremo ritardo.
Accettai di andar a insegnare – sempre come ricercatore – al San Raffaele di Cesano Maderno, facoltà di filosofia. Organizzai un corso sulla stregoneria e sullo sciamanesimo e l’anno dopo un corso sulla “paura”. Offersi a don Verzé d’insegnare gratuitamente antropologia clinica e antropologia medica. Questi mi rispose che loro non ne avevano certamente bisogno e che la loro impostazione già inglobava tutto questo.
Adesso, guardando le cose a ritroso mi sembra di essere stato un privilegiato, forse se fossi stato assorbito dall’accademia non avrei fatto e scritto le cose che ho fatto e scritto e non avrei incontrato studenti e studentesse, dottorandi e dottorande e mi sarei “riposato sugli allori” come si diceva una volta. Allori che nella nostra università non sono ghirlande che gli accademici mettono sulla propria fronte, ma il contenuto di cuscini, poltrone, letti e materassi su cui siede la staticità dei privilegi, delle schiavitù, dei favoritismi e dei nepotismi. Forse mi sono evitato tutto questo e non è poco.