di Valentina Fulginiti
Il lavoro c’è, sono i posti di lavoro che mancano. In estrema sintesi, è questo il messaggio che Thomas H. Benton, professore associato di Inglese allo Hope College (Holland, Mich) ha lanciato quasi un anno fa dalle colonne del periodico on-line The Chronicle of Education, per il quale si occupa di carriere e occupazione sul “fronte umanistico”. E a chi lo accusa di voler spezzare i sogni dei giovani, obietta: “Non sono io che faccio a pezzi i loro sogni. Lo hanno già fatto decenni di politiche nell’educazione superiore, insieme alla nostra incapacità, come corpo docente, di aiutarli.” (The Chronicle of Education, 13 Marzo 2009).
A quasi un anno dall’uscita, lo speciale Just don’t go (uscito in due pezzi, il 30 gennaio 2009 e il 13 marzo 2009) non perde in mordente e attualità. Vale la pena parlarne qui in Italia, dove per molti versi la situazione è simile, e dove la scelta di proseguire gli studi all’estero appare a molti un’alternativa credibile alla disoccupazione, anche fuori dalle cosiddette scienze dure, tradizionali ambiti di emigrazione dei cervelli.
Che le materie umanistiche non siano le più indicate per trovare lavoro, lo sapevamo senza bisogno di scomodare Thomas Benton. Ci viene rinfacciato, più o meno quotidianamente, da ingegneri ed economisti che deridono i precari umanisti o, peggio, negano l’esistenza della crisi al grido di “Colpa vostra, ve la siete cercata”. Quel che invece è interessante, è l’esauriente, puntuale descrizione di come funziona il mercato del lavoro accademico. Siamo sicuri che negli USA ci sia la manna che cade dal cielo? Il docente americano, sulla base della propria esperienza, la pensa diversamente. “Just don’t go”, è il suo consiglio ai neo-laureati che pensano di intraprendere un PhD in materie umanistiche. E spiega, punto per punto, come funziona il mondo accademico: pochissime posizioni retribuite, sempre meno tenure positions a fronte di un aumento di figure instabili: Lecturers, Adjuncts Professors, Research Professors e chi più ne ha più ne metta. Riuscire a ottenere una borsa di studio per passare cinque o sei anni della propria vita a studiare Jane Austen – argomenta ancora Benton – ha poco a che vedere con il diventare, un giorno, un professore con tutti i crismi (benefici previdenziali inclusi). Ecco come si diventa disoccupati con un PhD. A questo punto, o continui a lavorare, senza tutele e sottocosto, nell’illusione di acquisire quell’ulteriore esperienza e quelle ulteriori referenze che possano portarti a una svolta, oppure cerchi lavoro fuori dall’accademia. Con dieci anni di troppo sulle spalle, nessun risparmio (quando non ci sono debiti da pagare) e nessuna competenza pratico-tecnica. Questo quadro occupazionale è destinato a non cambiare per i prossimi decenni, argomenta ancora il docente: non ha senso sperare in un’ondata di pensionamenti, che in anni di recessione offrono il destro per tagliare cattedre in eccesso. In eccesso – puntualizza Benton – non rispetto all’effettiva necessità di lavoro, ma rispetto alle scelte economiche e strategiche degli atenei. Sic stantibus rebus, un PhD in materie umanistiche è consigliabile a una minoranza di persone, che dispongano di solide reti familiari in accademia, possibilmente di un cospicuo patrimonio o, al limite, di un coniuge con una posizione solida.
Non c’era bisogno di andare fino negli USA per imparare tutto questo: chi scrive ha sentito dire a un docente, in un’aula strapiena di matricole: «Questa è una facoltà che potete fare se e solo se siete ricchi di famiglia», proprio così, fuori dai denti. I tre requisiti del dottorando ideale suonano poi estremamente familiari al lettore italiano: per un’ironia della sorte, il più capitalistico ed efficiente dei sistemi perviene agli stessi risultati del peggior familismo e clientelismo italiano. Con una differenza: negli USA si studia per diventare avvocati e commercialisti a 22 anni, avendo il primo ciclo di università alle spalle, e di conseguenza, una percezione più realistica delle proprie condizioni e possibilità economiche; i percorsi di studio sono più graduali e flessibili, consentono maggior spazio di manovra. In Italia scegli la facoltà a a 19 anni, ed è per sempre: se alla fine della laurea di primo livello non trovi lavoro e vuoi cambiare ramo, devi rifarne un’altra daccapo. Passare da una triennale in Comunicazione a un biennio in Marketing (o viceversa), per esempio, è un’impresa degna di Eracle: ma sono davvero ambiti così distanti? Senza parlare dell’assurda distinzione, tutta italiana, fra Lauree Specialistiche, Master e Master di II livello, che portano l’umanista depresso a specializzarsi in ambiti più “produttivi” (editoria, giornalismo, risorse umane) dopo non uno, ma due livelli universitari, alla tenera età di 24-25 anni (cioè quando i giovani degli altri paesi hanno il primo scatto di carriera). E per fortuna che col 3+2 dovevamo velocizzarci e diventare “competitivi” sul mercato europeo.
Bisogna capire i meccanismi del mercato a cui (non) si accede, ci dice Benton, o si finisce per esserne stritolati, attribuendo a se stessi le colpe e non alle regole di una “partita truccata in partenza”. Sacrosanto. Ma quando dall’analisi si passa alla pratica, le risposte non sono facili. La conseguenza di questo ragionamento dove porta? Ad accettare lo status quo – causato, intendiamoci, non da chi lo analizza lucidamente, ma da chi ne genera le premesse economiche e materiali? Il docente sostiene di sì, accusando di immaturità i giovani che, non volendo accettare la triste differenza tra i loro sogni e la realtà, condannano se stessi a una perenne adolescenza, come se si potesse “vivere in eterno senza mai doversi prendere cura di figli piccoli o genitori anziani”. Ma non è questo un altro modo, più sottile, per colpevolizzarci di una situazione che ci viene imposta? Non sarebbe più opportuno cercare di cambiare lo status quo? Magari smettendo di lavorare gratuitamente e rispondendo in coro: “Se non avete bisogno di nuovo personale sta bene, però a tenere gli altri 38 corsi di questo semestre ci andate voi”?
Nel frattempo, rimane valido il suggerimento dato da Benton agli umanisti più testardi: tenete gli occhi aperti sul mondo, non disprezzate le attività non accademiche, acquisite competenze diverse (cominciando da quelle informatiche, troppo spesso disprezzate da chi vive con la testa tra le nuvole), e soprattutto acquisite la capacità di “surfare” fuori e dentro l’accademia. Possibilmente per cambiarla, immettendovi nuove domande e nuovi contenuti dal mondo “reale”.