da anobii
Un singolare volume sul destino delle nostre università in un
momento in cui l’idea di università appare snaturata. Il nucleo
insopprimibile di questa idea è per Derrida l’"incondizionatezza", la
libertà intrinseca alla professione dell’insegnare. Rovatti è d’accordo
ma a condizione di guardare con attenzione a quel che accade in casa
nostra, dove il fantasma dell’azienda sembra restringere gli spazi e
togliere slancio all’università stessa.
da filosofia.it
di Donatella Di Cesare
Senza dubbio una università senza condizione – qual è quella delineata da Derrida nel testo di una lezione tenuta in tante parti del mondo e ripresa criticamente da Rovatti – una università che si vede riconosciuta, oltre alla tradizionale libertà accademica, una libertà incondizionata di interrogazione e di proposizione, una libertà incondizionata di ricerca, e soprattutto di ricerca della verità, in Italia oggi non esiste.
Non esiste anzitutto perché l’attuale governo, sin dall’inizio, anziché aumentare gli incentivi, indispensabili per mettere in atto la riforma varata in precedenza, ha tagliato tutti i fondi all’università. L’ha fatto – occorre dirlo – in un modo drastico e violento al punto da far pensare a un attacco deliberato contro il luogo pubblico – forse l’ultimo? – di "resistenza critica". Prima ancora di poter parlare di libertà incondizionata si è costretti a parlare di diritto allo studio. Perciò Rovatti mette un titolo eloquente al suo contributo: A condizione – che vuol dire rilanciare come compito l’università senza condizione a condizione che le effettive condizioni lo permettano. Si calcola – ma è solo un esempio – che dal prossimo ottobre le tasse aumenteranno del venti per cento. L’università va avanti grazie alla volontà degli studenti e dei docenti e all’arte tutta italiana di arrangiarsi improvvisando. Ma quest’arte funziona per poco e il peggio deve ancora venire.
Così è vero che paradossalmente, proprio nel momento in cui di più sarebbero serviti per far fronte alle nuove esigenze avanzate dalla riforma, i fondi non ci sono stati, anzi sono venuti meno. Ma i limiti gravi, anzi gravissimi, della riforma universitaria varata dal centro-sinistra non possono essere ricondotti – come vorrebbero alcuni – solo alla mancanza di fondi. Non è così. Questi limiti li avvertiamo da molti mesi, da quasi un anno. E il libro di Derrida e di Rovatti ci aiuta a riflettere con quella distanza che in casi del genere è indispensabile. È vero che l’idea di "università" concepita dalla riforma non ha avuto i mezzi per essere realizzata. E perciò si deve parlare di riforma a costo zero. Ma qual è questa idea, anzi questo fantasma di università?
La "nuova" università, accompagnata alla sua nascita da parole altisonanti come "adeguamento europeo" e "modernizzazione", è l’università-azienda che anzitutto produce, produce per il mercato del lavoro. La produttività diventa il criterio per eccellenza, il criterio dell’eccellenza. Lo studio deve servire a qualcosa. Altrimenti – e questo è il punto – perché studiare? Se ben fatto lo studio deve servire a una pratica (non dico prassi che è sempre connessa con teoria), deve avere uno sbocco, meglio se è uno "sbocco professionale". L’università, nuova "fabbrica dei saperi", si adatta, anzi si piega, a questo fine esterno ed esteriore. Il che potrà forse tornare utile per alcuni saperi, quelli tecnici o tecnico-scientifici, e dunque per quei dipartimenti che concentrano gli investimenti di capitali ritenuti produttivi nel mondo accademico.
Ma che ne è delle Humanities, degli studi umanistici di cui parla Derrida? La risposta sarebbe una domanda piena di meraviglia: gli studi umanistici? E soprattutto la filosofia? Quest’ozio inconcludente che non porta a nulla, cioè che non produce nulla? La modernizzazione sembra poggiare allora su fantasmi vecchi, ma non per questo meno pericolosi, riesumati per l’occasione. Primo fra tutti quello del positivismo scientista che si è conservato purtroppo in tante parti della sinistra italiana. È questa, nonostante i molteplici interessi che stanno invadendo l’università, la "filosofia" di cui è imbevuta la riforma. Si tratta di una "filosofia" solo tra virgolette perché, a ben guardare, nasconde un atteggiamento a-filosofico quando non scopertamente anti-filosofico. Se pretende di servire ancora a qualcosa, la filosofia deve farsi scienza o, meglio, deve imitare la scienza. Non deve saper domandare, deve saper rispondere; non deve indicare i problemi, deve risolverli. Tutto questo a molte, troppe condizioni, e soprattutto in vista di un fine condizionato. Lo stesso vale ovviamente per tutti gli studi umanistici. A che pro studiare ad esempio antropologia e perché ancora il lusso del sanscrito? Ma più in generale vale ovunque ci sia ancora l’istanza di una riflessione critica che è incondizionata – come già ricordava Kant – perché è orientata verso un fine incondizionato.
La riflessione deve venir meno, la critica assottigliarsi sempre di più per dare spazio a un sapere impartito, impartibile e dunque tollerabile. La "fabbrica dei saperi" accetta al proprio interno – e solo in vista del fuori – il sapere che attraverso moduli e crediti (per usare i neologismi che sembrano tratti da un gergo bancario) si lascia quantificare, smontare, ricostruire, che si lascia insomma controllare. Il controllo arriva all’assurdo. Ogni studente deve seguire un curriculum. Deve, cioè è costretto. Un "curriculum" vuol dire un percorso già tracciato, un binario da cui non può uscire – fino alla laurea, breve o specialistica. Nonostante tutte le garanzie, elargite all’inizio con troppo leggerezza, non resta alcun margine di libertà, alla fin fine di scelta. Di nuovo, non si distingue o non si vuole distinguere. Per alcune discipline il curriculum, assunto con molta flessibilità, potrebbe perfino rivelarsi opportuno; per altre discipline si decreta la morte. Perché mai uno studente di Filosofia – che a suo rischio ha scelto una "autovalorizzazione" appartenente a un’altra economia – dovrebbe essere costretto a non scegliere? Per esempio a dover incassare venti crediti in Filosofia della scienza se intende laurearsi in Filosofia teoretica? Perché mai dovrebbe avere ragione chi ha pensato per lei o per lui il curriculum? E soprattutto: non si invade una scelta che sarebbe già a sua volta il risultato di una riflessione e autoriflessione? Non si nega così fin dall’inizio ogni istanza di riflessione critica, non si nega la filosofia stessa?
Non è un caso che, dopo lo spaesamento del primo anno di riforma, nel tentativo di orientarsi nel labirinto di curricula, ovvero binari didattici, di moduli, ovvero programmi, di crediti, ovvero quanti punti valgono 100 pagine di questo libro, tra le voci critiche che si sono levate ci sono quelle dei filosofi. Penso allo scritto di Rovatti. Ma penso anche all’occupazione della Facoltà di Filosofia della "Sapienza" di Roma in cui gli studenti sono riusciti ad aprire nuovi e importanti spazi di dibattito sulla riforma. Non si è trattato di una semplice, banale protesta. Sulla base della loro esperienza, ma anche di uno studio approfondito di tutto quello che riguarda la riforma, gli studenti hanno cercato di delineare nuove prospettive interrogandosi sull’idea stessa di università. Non lo hanno fatto per nulla da "nostalgici". O forse sì, da nostalgici. Ma la nostalgia è rivolta al futuro, a un altro futuro della filosofia e a un altro futuro dell’università – le due cose sono connesse.
La prima speranza per il futuro è che l’università non diventi l’azienda produttiva che la riforma vuole. Se lo diventasse, scomparirebbe l’università. La seconda è speranza e insieme promessa: di una università che non c’è, che non c’è ancora, e che talvolta si è spinti a credere non ci sarà mai. La terza è speranza, promessa e professione di fede (di un professore che assume su di sé le proprie responsabilità): dichiarazione pubblica, performativa, di impegno senza limiti per l’università, per gli studi umanistici di domani, per la filosofia, per la riflessione critica. Perciò: appello alla resistenza.
Questa resistenza incondizionata potrebbe opporre l’università ai poteri politici, economici, mediatici, ideologici, religiosi, a tutti i poteri che limitano la democrazia a venire – ma senza risparmiare neppure il concetto di "democrazia". L’università senza condizione si fonda allora sul diritto incondizionato di dire tutto – sia pure solo per sperimentare – di dire tutto pubblicamente, di pubblicarlo. Ed è, diversamente da ogni istituto di ricerca finalizzato a qualcosa, incondizionata, senza condizione perché, eterogenea al potere, e quindi priva di potere, è una "cittadella esposta" che esangue può finire per arrendersi senza condizioni.
Si intravede allora un cortocircuito tra università e globalizzazione. All’interno del processo di "mondializzazione" per dirla con Derrida – che deve essere allo stesso tempo anche una "umanizzazione" – il diritto assolutamente incondizionato di domandare deve trovare il proprio luogo nell’università, e nella fattispecie nei dipartimenti di Studi umanistici e soprattutto di Filosofia. Questo luogo però, Derrida lo dice con chiarezza, non è un dentro, come lo era nel passato. L’insegnamento, lo studio, la ricerca devono trovare nell’università il proprio luogo incondizionato "non per rinchiudersi lì, ma, al contrario, per trovare l’accesso migliore a un nuovo spazio pubblico trasformato da nuove tecniche di comunicazione, di informazione, di archiviazione e produzione del sapere".
L’università ha il privilegio di essere tra il dentro e il fuori, e cioè al limite. Su questo limite, su questo confine, deve negoziare e organizzare la sua resistenza. Oggi più che mai. "Perché – come scrive Rovatti – oggi il luogo del pensiero è questo non luogo, quest’enclave tra dentro e fuori che ha a che fare con la mondializzazione del mondo". Perciò deve essere luogo di resistenza, di dissidenza, di disobbedienza civile se fosse necessario. Perciò l’università ha luogo, cerca il suo luogo, ovunque l’incondizionatezza possa annunciarsi.