di Sergio Luzzatto
Nell’attuale protesta dei ricercatori, l’università e la politica italiane raccolgono quanto hanno improvvidamente seminato da una quindicina d’anni a questa parte.
Il caso di Bologna – dove i vertici dell’ateneo hanno posto un ultimatum ai ricercatori, minacciando di assumere docenti a contratto per garantire i corsi che i ricercatori stessi si rifiutano di tenere – è la punta di un iceberg: in forme appena meno virulente, un identico contenzioso esiste in tutte le nostre università, e l’inizio dell’anno accademico si presenta a rischio dovunque.
Stando così le cose, è giusto che l’insieme dell’opinione pubblica, ma prima ancora i più diretti interessati (gli studenti universitari e le loro famiglie) abbiano la possibilità di veder chiaro almeno sui termini del problema. Chi ha ragione e chi torto? Hanno ragione gli atenei, nel momento in cui richiedono ai ricercatori di svolgere “regolarmente” i loro compiti didattici, o hanno ragione i ricercatori, nel momento in cui negano che fra tali compiti sia compresa una titolarità diretta dei corsi?
Per rispondere alla domanda, occorre ricostruire in due parole la storia di questa figura professionale: il ricercatore universitario. Una figura nata trent’anni fa, e che sembrava essenzialmente destinata a svolgere (lo diceva il nome) attività di ricerca, non d’insegnamento. In teoria, gli obblighi didattici dei ricercatori si limitavano a forme di collaborazione con i professori “veri”, gli ordinari e gli associati. Ma cammin facendo, e soprattutto da quando la riforma del “3 + 2” ha notevolmente aumentato l’offerta didattica degli atenei, ai ricercatori si è chiesto di fare di più: si è chiesto loro di tenere interi corsi, tali e quali quelli degli ordinari e degli associati.
Inizialmente, tali corsi venivano ricompensati con un benefit economico. Poi, la crescente ristrettezza di risorse ha costretto gli atenei ad attivarli “a costo zero”, e il senso di responsabilità dei ricercatori li ha indotti ad accettare.
Logica avrebbe voluto che una simile realtà delle cose – l’evidenza per cui i ricercatori sono professori de facto, docenti a tutti gli effetti – trovasse un riscontro de iure, una formalizzazione giuridica. E infatti, più volte negli ultimi lustri sono stati discussi in parlamento disegni di legge che avrebbero istituito la cosiddetta “terza fascia di docenza”: soddisfacendo così la naturale aspirazione dei ricercatori di non essere più considerati professori-fantasma, manovalanza innominabile. Ma ogni volta, un’altrettanto naturale alleanza dei “baroni” universitari e delle forze politiche più retrive ha vanificato il proposito.
Oggi, la protesta dei ricercatori contro alcuni profili (giusti o sbagliati) della futura riforma Gelmini appare come una nemesi del trattamento insieme opportunistico e arrogante che il sistema universitario ha loro riservato negli anni. E interpella tutta una classe dirigente, incapace di valorizzare risorse umane strategiche per lo sviluppo del paese.