di TONI NEGRI
Che con il 14 dicembre la Repubblica abbia versato nell’agonia, sembra chiaro alle gazzette. In effetti la situazione è grave. In crisi è la macchina costituzionale. La recessione è alle porte e copre un altro pericolo, probabilmente ancora più importante e sottaciuto, che è la secessione del Nord. Tutto questo nella salsa di un’invadente corruzione, che non è senz’altro solo quella denunciata da Travaglio o da Fini, ma la disgregazione interna del meccanismo di equilibrio e rappresentanza costituzionale.
Questa crisi è stata fin qui gestita interamente dalla destra. Inutile soffermarsi su cosa sia stato il berlusconismo: una reinvenzione populista, transitoria ma efficace, del governo del capitale nella fase di transizione dalla guerra fredda all’evento del declino del governo imperiale americano. Le alleanze Berlusconi-Putin o Gheddafi sono molto meno caricaturali e scandalose di quanto le si voglia fare apparire; le pasoliniane notti di Salò del nostro primo ministro, adeguate al decadimento morale delle dirigenze politiche dell’occidente. Non sappiamo come andrà a finire: quello che sappiamo è che la forza per rispondere alla crisi, dal punto di vista proletario, è stata insufficiente, che la sinistra parlamentare non è solo debole ed inefficace ma che funziona benissimo come contraltare di uno schieramento moderato rissoso e in crisi.
Qui è necessario rompere ogni continuità. Sembra chiaro che il dibattito politico d’ora in poi debba svolgersi sui temi di un programma costituente, irriducibili all’attuale realismo della sinistra, e debba trovare forme organizzative adeguate alla nuova composizione sociale della resistenza dei lavoratori della mano e del cervello. È bizzarro, ma non inusuale, accorgersi che ora la lotta democratica sia già confusa con quella sovversiva, che il vuoto di democrazia è già stato fatto e che dunque sovversione è oggi costituzione. Il Pd non è agibile soltanto sui due terreni sui quali propone, per così dire, linee politiche: il “centrismo” veltroniano o la “socialdemocrazia” dalemiana – non lo è neppure sul terreno Vendola. Il problema, soprattutto con Vendola (che senz’altro molti di noi sentono come più vicino), non è tanto quello di non discutere con lui ma di non considerare il dibattito con lui come un’arma che possa trasformare il Pd. Di fuochi di paglia ne abbiamo visti molti, non da ultima la disillusione obamaniana.
Dal punto di vista del programma, la discussione che si è aperta nei movimenti sembra esser proceduta moltissimo. Il programma è quello della riappropriazione del comune. L’università è un comune: gli studenti, nella lotta contro la Gelmini (ma anche gli studenti inglesi, francesi, ecc.) lo hanno mostrato. Nelle fabbriche invece, dove si continua lottare (eccome! malgrado la crisi) sembra che questa discussione non sia ancora riaffiorata. La Fiom dovrebbe rendersene conto. Ma il problema centrale (ed è su questo che né il Pd, né Vendola stanno agendo) è quello della riappropriazione comune del welfare pubblico. Le lotte francesi sulle pensioni hanno dato la misura di come sia possibile procedere unitariamente su questo terreno. È questo il terreno decisivo: dal pubblico al comune, dove i temi della riproduzione della forza lavoro e quelli della diffusione produttiva del sapere si congiungono alla riappropriazione e alla gestione democratica del comune.
Dal punto di vista organizzativo, sono solo le lotte ed i compagni che le vivono, che possono indicare un sentiero percorribile. Ma è fuori dubbio che, sempre di nuovo, quando si aprono le lotte, il tema di un’avanguardia che permette al movimento di trovare spazi e tempi adeguati alla sua espressione, diventa centrale. Le vecchie teorie qui non c’entrano più. C’entra l’esperienza attuale, la necessità per il movimento di ricentralizzare la sua molteplicità. Il movimento sa che non organizza soltanto la miseria ma soprattutto la povertà, cioè la potenza produttiva che è messa fuori, esclusa dalla capacità di agire dei lavoratori. La dignità del sapere e del lavoro è in gioco. È questa la centralità che interessa. Organizzare questa centralità significa costruire organizzazione cooperativa delle lotte e dell’elaborazione programmatica. Dare continuità e solidità a questa organizzazione è oggi il passaggio da compiere.
Si illude chi pensa che la pianificazione delle lotte possa partire da un ordine partitico o da un’occasione elettorale. I rapporti di forza non sono tali da permetterlo e quand’anche lo fossero, di nuovo sarebbe quel fuoco di paglia cui sopra accennavamo. È solo la rete che illumina il cammino delle lotte. La centralità però va ricostruita, anche in rete. Quanto è accaduto in Francia nel periodo delle lotte sulle pensioni è stato molto indicativo. C’era qualcuno nei giorni scorsi che diceva: oggi è come prima della rivoluzione francese, non c’è politicamente altro che l’ancien régime, poi non potrà esserci altro che un’assemblea costituente di tutti i ceti – che vuol dire con l’estrema maggioranza dei poveri. È questo salto che i movimenti devono governare.
Davanti a noi abbiamo il baratro di una recessione governata dagli epigoni del berlusconismo, che va a coprire l’effettiva secessione del Nord. Se non altro, Fini e Casini hanno in mente questa svolta sciagurata. Non sembra che il Pd ne sia ancora accorto, meglio, pensa che non si possa governare senza la Lega. Ma è su questo che bisogna intendersi: perché la Lega non è meglio ma peggio del berlusconismo, perché la Lega è la negazione totale della nuova composizione sociale del lavoro, perché la Lega è l’odio sanfedista rinnovato, è la reazione così come si presenta nella postmodernità.