La lotta degli studenti tra le rovine dell’università.
I). Ricordare per trasformare.
L’approvazione, da parte del Parlamento, qualche tempo fa’, della riforma attribuita all’avvocata Gelmini, segna un punto di biforcazione nella traiettoria descritta dalla lotta degli studenti: o, nei primi mesi di questo nuovo anno, l’ondata di occupazioni riprenderà più tumultuosa di prima, ricreando negli atenei italiani le “comunità di insorti”; oppure, se la vita universitaria ritroverà rapidamente il suo anonimo ritmo, allora un ciclo sarà finito, ed il movimento che lo ha scatenato andrà considerato politicamente morto. Non bisogna, infatti, alimentare illusioni: se gli studenti desistono dalle forme radicali di lotta, i docenti ed i ricercatori non dispongono, in generale, né dello spessore intellettuale né del coraggio civile per sabotare la riforma; sicché, dopo qualche pantomima accademica, e.g. le finte dimissioni di presidi e vice- rettori, le dilatorie proposte di referendum abrogativi; tutto tornerà come prima, solo un po’ peggio. Di fatto, la riforma Gelmini non fa che sancire per legge, quel che da anni ormai è la condizione della vita universitaria, ivi compresa una certa dequalificazione della docenza.
Malgrado, dunque, che il futuro sia incerto, come per altro è giusto che sia dal momento che un futuro certo è un ossimoro; malgrado questo, vale comunque la pena di approntare un primo bilancio schematico della esperienza trascorsa, per imparare dagli errori commessi. Qui ne esamineremo uno, quello che ha a che fare con la memoria collettiva, quindi con la capacità di narrarsi, di riconoscersi. L’osservatore che abbia seguito con attenzione la produzione di testi, discorsi o ancor meglio slogan da parte degli studenti in lotta, ha netta l’impressione che il movimento si raffiguri le difficoltà non come problemi da risolvere bensì come ostacoli da saltare, senza guardarsi dietro. Ora, l’esperienza insegna come, in faccia ad un ostacolo, per saltare meglio, occorra tornare indietro e prendere la rincorsa.
Fuor di metafora, v’è una dimenticanza adolescenziale che porta a pensare l’universo simbolico delle credenze, delle passioni, delle appartenenze, così come le sofferenze e gli odi, insomma che tutto quel che fonda il senso comune del movimento sia un mondo nato da poco, alcuni anni fa’ con gli scontri di Genova o addirittura l’altro ieri negli incendi colorati del 14 dicembre a Roma. Questa smemoratezza– la cui funzione vitale è quella di non farsi schiacciare dalla storia, con la sequela di rumori, suoni, disincanti e sangue– nasconde nel suo seno il pericolo fatale di smarrirsi, di non riconoscersi; e di ripercorre, inconsapevoli, quelle vie che, nel passato, hanno condotto al fallimento altri movimenti. La questione riveste una assoluta rilevanza quando si tratta della produzione del sapere sociale e della sua comunicazione. Là, il movimento si confronta con millenni di storia; sicché se si interroga sulla natura dell’università, per trovar risposta, non basterà certo dire no all’ultima controriforma e dileggiare l’autrice.
Qualora, come pure confidiamo, entro la primavera, le occupazioni degli atenei italiani riprendessero, le comunità di insorti sarebbero costrette, per sopravvivere, a praticare una altra ragione sociale dell’università, una altra università che vive in potenza nelle rovine dell’attuale. Davanti alla domanda: “a cosa serve l’università oggi per gli studenti?”, la risposta, per potersi formulare, impone una precondizione necessaria: distanziarsi per riguardare l’università come una forma di vita, movimento percepibile nel lungo periodo, nel corso del suo farsi, nella sua storia, fuori dall’attesa, in una sorte di eterno presente.
II). Riandare all’origine non vuol dire tornare indietro.
All’origine, l’università è una comunità, di docenti e discenti, che esercita la difficile arte dell’autoformazione, l’emersione dell’individuo sociale, dalla coscienza enorme. La ragione sociale di questa impresa è conservare il sapere come “bene comune”; e questo si realizza attraverso l’attualizzazione consapevole del principio di individuazione; il che vuol dire, in breve, cercare di riconoscere e liberare la vocazione, il demone che dorme latente in ogni essere umano. La ricerca,poi, che si chiama più umilmente “studio”, non si è ancora resa autonoma, non ha lo scopo, qualche po’ nevrotico, di inventare il nuovo ma di scoprire ciò che è vero, dove “il bello ed il buono si convertono l’uno nell’altro”.
Dal punto di vista delle moltitudini, si tratta di una esigua frazione di cittadini, una minoranza che noi diremmo oggi privilegiata. Ma svolge una attività sociale essenziale per la qualità della vita urbana: testimoniare che la conoscenza libera, il “sapere di non sapere fa bene”; tenendo, così, aperto un sentiero percorribile, almeno in principio, anche da coloro che non stanno proprio bene o addirittura se la passano decisamente male.
L’Universitas originaria, nasce nel Medioevo, attorno a quel comune “curriculum studiorum “ articolato nelle sette arti liberali– nel senso antico del termine, che significa, al contrario di quel che accade per noi moderni, libere da intenzioni di lucro. Vi sono così le arti del trivio o sermonciali — grammatica, retorica e dialettica—e quelle del quadrivio o reali – aritmetica, geometria, musica ed astronomia. L’attraversare, con la guida dei docenti, tutti questi saperi permette allo studente di acquisire, in primo luogo, la disciplina della lettura, la capacità di concentrare lungamente l’attenzione su una determinata questione. Lo svolgersi degli insegnamenti e delle valutazioni attraverso le dispute garantiva poi l’acquisizione della potenza comunicativa nonché una certa attitudine critica verso le più diffuse illusioni cognitive. Così, le molteplici discipline convergevano in un unico verso, realizzando appunto, come vuole la parola, una “universitas studiorum”.
Tutti gli universitari, quindi, dovevano apprendere la sette arti; per poi, in genere poco più che ventenni, dividersi in funzione degli studi specializzati relativi ai destini professionali– che, a quel tempo, erano sostanzialmente tre : l’avvocatura, la medicina e la teologia. La facoltà di esercitare le prime due si conseguiva, solitamente, attorno ai venticinque anni; mentre per formare un teologo occorrevano almeno dieci anni di più, fin quasi alla soglia del primo apparire della presbiopia, quando la lettura diveniva faticosa. L’ asimmetria nella durata degli studi non risultava certo dal caso; essa era lì a testimoniare la gerarchia che ordinava quelle facoltà, dove la teologia svolgeva il ruolo di riduzione “ad unum” dei saperi; e perciò stesso offriva il paradigma, si presentava regina della conoscenza. Si noti che, in questo concezione sociale degli studi, l’università fonda la sua libertà, dalla giurisdizione ordinaria, sulla autonomia totale dell’attività conoscitiva: l’università è libera per perseguire il sapere come “bene comune”, fine e mezzo ad un tempo. Potremmo dire, scusandoci per il galvanismo fraseologico, che il senso comune medievale considera l’università alla stregua degli “usi civici”, come un bene comune.
III). Scoprire il vero piuttosto che inventare il nuovo.
L’Universitas medievale subisce un primo grave scossone nel Rinascimento, quando la deflagrazione dell’unità religiosa ed il simultaneo impossessarsi, da parte dei linguaggi matematici, dei saperi tecnici, tutto questo risulterà più che sufficiente a detronizzare la teologia dal suo ruolo di regina per sostituirvi, non senza qualche fallacia argomentativa, la “filosofia naturale” , con i suoi principi mostrati alla maniera di Galileo, “more geometrico”.Poi, a partire dal secolo dei lumi, l’università perderà la sua qualità cosmopolita e verrà nazionalizzata. Tuttavia, seguendo lo schema elaborato da W.von Humboldt per l’università prussiana, la gerarchia delle discipline resterà quella ereditata dal Rinascimento; anzi, s’accentuerà, fino a conseguire esiti paradossali, l’egemonia dei linguaggi formali , e.g. la sociologia come fisica dei fenomeni sociali.
Parallelamente, l’industria comincia ad usare, con crescente frequenza, la tecno-scienza; e, attraverso i Politecnici, apre , con massicci investimenti, laboratori in grado di perseguire sistematicamente la messa al lavoro della scienza per la valorizzazione capitalistica. Le più prestigiose università europee, per finanziarsi, cominciano a dotarsi di strutture per produrre innovazioni, mentre gli stati nazionali agiranno in modo da affidare alla discrezione del potere politico la scelta dei filoni di ricerca da promuovere o da rimuovere, in funzione degli interessi e delle aspettative del complesso militare –industriale.
La parabola dell’università medievale attingerà il suo vertice nel Nord America, negli anni quaranta del XX secolo; quando l’integrazione tra università e complesso militare-industriale partorirà il suo capolavoro, il “Progetto Manhattan” per la produzione seriale degli ordigni atomici. La figura melanconica del fisico italiano Enrico Fermi, già allievo della Scuola Normale di Pisa e premio Nobel, massimo responsabile tra gli esperti di quel progetto, riassume in sé l’intera parabola che ha portato alla rovina l’istituzione universitaria nella civiltà occidentale. Così, la costruzione della bomba ed il suo uso, efficace quanti altri mai – il fungo di fumo, dentro cui sublima Hiroshima, immagine emblematica dell’epoca— coincide con il prender forma della nuova università, la Research University vera e propria” fabbrica del nuovo”, che produce invenzioni destinate a tradursi in merci per soddisfare nuovi bisogni; dove l’aggettivo” nuovi” va inteso nel senso alienante di “indotti”.
Ora, al contrario che nell’università humboldtiana, il lavoro seriale di ricerca è il criterio per discriminare le università produttive da quelle parassitarie. La funzione dei buoni atenei è divenuta quella di fabbricare e rendere pubbliche, cioè socialmente utilizzabili, le innovazioni concettuali, tecnologiche o organizzative, più promettenti per il sistema militare-industriale; in ultima analisi, per assicurare, come usa dire oggi con un occultante anglicismo, la “governance” dinamica del sistema socio-economico. Assistiamo così alla graduale regressione dell’università da comunità di docenti e discenti a scuola professionale che provvede alla formazione di mano d’opera qualificata per il mercato del lavoro. Ecco affermarsi, negli atenei, la figura, umanamente strampalata, del ricercatore a vita; che, per continuare a cercare, non deve mai trovare; un idiota specializzato che sa tutto su nulla. Quella che è una attività generalmente umana, la curiosità di scoprire, diviene una mansione lavorativa specializzata, scissa dalla vocazione, ed erogata ad orario. Ora il “curriculum studio rum” è concepito in relazione al lavoro di ricerca; ed anche gli studenti, e sono la grande maggioranza, il cui destino professionale non riguarderà certo un simile lavoro, si formeranno secondo questo modello.
La Gran Bretagna importerà per prima in Europa, il modello americano; ma lentamente, decade dopo decade, gli altri paesi si adegueranno. Per una ironia della storia, l’accordo tra i rettori degli atenei della comunità europea destinato a sancire questa omologazione continentale sarà siglato, agli albori del secondo millennio, a Bologna, la città che ha partorito, agli inizi del millennio appena trascorso, la prima università pubblica dell’Occidente, nella forma dell’autogoverno degli studenti. In questo quadro di tendenze secolari, l’avvocata Gelmini risulta, come protagonista, a dir poco sopravvalutata. Più che un titano ci appare come un totano che mastichi minutaglie: non fa che completare quell’opera di americanizzazione che già ha stravolto le nostre antiche istituzioni universitarie, precipitandole nella rovina; opera, questa, iniziata- ahinoi!- quindici anni fa’ dal prof. Berlinguer, comunista pentito.
IV). La lotta per la lingua: parole da buttare, parole da inventare.
Se è questo l’attuale orizzonte degli eventi universitari,agli studenti insorti non resta che una sola cosa da rivedere ogni giorno e dalla quale ripartire; la stessa che, all’origine, ha creato,nel Medioevo tenebroso, quel luogo, del tutto particolare, che è stata l’Universitas. Ci riferiamo alla ricerca della vocazione, del demone interiore che, da tempo immemorabile, dalla fondazione della città, abita l’inconscio collettivo della vita civile. Perché la condizione di studente universitario comporti l’esercizio del riconoscere il proprio autentico e singolare destino, l’università va smontata e rimontata come Universitas, partendo dalle presenti rovine. Il che implica, ad esempio, che gli attuali corsi di laurea siano ridisegnati seguendo le passioni cognitive degli studenti; e non già pianificati secondo le previsioni, per altro inaffidabili, dei mutamenti del mercato del lavoro, da parte degli scienziati dell’economia, moderni o postmoderni che siano.
Questo è solo un esempio, che sta là a mostrare quanto spazio ci sia per una prassi insorgente che distrugga mentre ricostruisce; e, piuttosto che cercare alleanze sociali per finire col annegare nel ceto della rappresentanza, organizza l’esodo, si separa da sindacati e partiti,per mostrare che una altra università è possibile,qui e ora. Non occorre neanche protestare contro la legge e tanto meno sabotarla; basterà ignorarla, praticare l’indifferenza; e sperimentare, nell’ ateneo occupato, quasi fosse già l’altra università, la cooperazione comunitaria tra studenti e docenti che agisce la conoscenza come il più comune dei beni, fine e mezzo ad un tempo; e, in questo suo inverarsi, autorizza subito il massimo benessere collettivo possibile, quella pienezza di vita che si avverte quando la realizzazione del “noi” diventa la condizione per la realizzazione del” se”.
Appropriarsi, dunque, del luogo universitario per tessere la rete che permetta l’esodo. Infatti, l’esodo, di cui è qui questione, non è geografico ma semantico: si tratta di passare, tutti insieme, le parole al setaccio della intelligenza collettiva, della comune facoltà di pensare criticamente – così: buttandone alcune alle ortiche, rievocandone un diverso significato per delle altre, componendone di nuove per dare un nome a delle emozioni che sono già là, ma, prive di nome, restano inavvertite alla coscienza. Tra le parole di cui bisogna, in fretta, imparare a fare a meno, campeggiano “trasparenza”,“competizione”, “meritocrazia”, “ricerca” ,“futuro” e così vagheggiando. Sono, di tutta evidenza, concetti severamente compromessi da tempo ma risvegliati dal coma per consentire, agli ideologi della americanizzazione, di imbellettare, con argomenti razionali per quanto male in carne, un crudo processo di mutilazione e omologazione. Come si sa, è questo un lessico mediatico trasversale, condiviso dal ceto politico nella sua interezza; e che lambisce e anestetizza, in misura preoccupante, i movimenti in lotta, perfino l’insorgenza degli studenti universitari.
A questo proposito, ci limiteremo, qui, ad una breve disanima di due tra queste illusioni cognitive ossia “meritocrazia” e “ricerca”. La prima parola, nel contesto dell’uso, allude alla decisione governativa di riconoscere e promuovere il merito nelle prestazioni del lavoro universitario—e fin qui il proposito potrebbe anche risultare lodevole; se non fosse che la promozione è intesa come progressione in carriera e in busta paga. Ora, nel lavoro intellettuale, il merito, quando è vero, s’appaga interamente della stima comune che suscita e dalla quale è circondato; se invece, per essere riconosciuto, abbisogna dei gradi gerarchici o della gratificazione per differenza monetaria allora è merito, certo, ma nella versione servile di capacità d’obbedire, un male anch’esso comune. In ogni caso, vorrà dire pure qualcosa il fatto che, in un arco di tempo che sfiora il millennio, quelli, tra gli intellettuali universitari sensibili all’incentivo del comando o all’aumento del proprio reddito monetario, ben raramente hanno meritato la stima dei contemporanei e si sono conservati nel ricordo dei posteri.
E veniamo, infine, ad una altra parola-chiave: “ricerca”. Anche qui, tutti, da Marchionne a più di un militante dei centri sociali passando per Vendola, valutano positivamente il lavoro di ricerca e si ripromettano d’ampliarlo come una saggia strategia per assicurare un futuro garantito; cioè, fuor di retorica,per imporre la crescita economica, quella misurata dal PIL, nel medio periodo. Ora, è stata proprio la crescita impetuosa del lavoro di ricerca a consegnare l’università al complesso militare-industriale. A mo’ d’esempio, consideriamo la ricerca in fisica, che a tutt’oggi continua ad essere la più costosa tra quelle finanziate dalla mano pubblica. Per oltre mezzo secolo, essa si è concentrata, attraverso le grandi macchine acceleratrici, sulle alte energie; e questo non già perché il buon Dio abbia scelto di occultare là i segreti ultimi della natura; piuttosto, lo studio e l’uso delle alte energie sono strettamente imparentati con la progettazione e fabbricazione di ordigni bellici ad alto potenziale distruttivo; e la distruzione, si sa, esercita una attrazione irresistibile sui militari. Così, dagli anni trenta agli ottanta del secolo appena trascorso, grazie ai massicci finanziamenti statali, gli acceleratori hanno aumentato esponenzialmente la loro potenza, di un fattore dieci, grosso modo, per ogni decade. Poi, quando l’Unione Sovietica è crollata, la guerra fredda è finita ed il mercato mondiale si è unificato, gli acceleratori hanno smesso di crescere, molti sono stati drasticamente ridimensionati; alcuni addirittura chiusi ed i loro gusci bizzarri , che ne contenevano l’architettura, si stagliano, enormi e vuoti di senso, nelle desolate periferie delle metropoli, sia nordamericane che russe.
L’unico acceleratore che nel nuovo secolo sia veramente sopravvissuto continuando a crescere è l’acceleratore del CERN a Ginevra, il più grande del mondo. Le sue dimensioni sproporzionate ne fanno una meta- fabbrica, anzi,quasi un immane tempio azteco, il Tempio della Big Science. Vi lavorano migliaia e migliaia di ricercatori che provengono dalle Research Universities di tutto il mondo. Se si valutano i risultati, il bilancio stinge nettamente al rosso. Negli ultimi trenta anni, non una sola scoperta scientifica di qualche rilievo è stata trovata al CERN; e anche la ricaduta tecnologica, ad uso dell’industria e connessa alla precisione maniacale della strumentazione adoperata, è stata, fatta salva una sola eccezione, decisamente modesta, se raffrontata ai costi stratosferici in personale ed impianti. Come era già accaduto alla astronomia medievale all’epoca della moltiplicazione delle “ orbite omocentriche”, alla scarsezza di risultati cognitivi si accompagna una involuzione mistica della teoria: una sovraproduzione bizantina di modelli che, di suo, testimonia la crisi concettuale nella quale versa la fisica, pur senza saperlo. Piuttosto che interrogarsi, impiegando carta e matita, sui fondamenti del modo di pensare la natura che è prevalso in Occidente, il lavoro di ricerca al CERN fa un ulteriore balzo in avanti; ed incappa nel vuoto per quel suo puntare paranoico a risolvere i misteri ontologici per i quali non possiede l’adeguata potenza intellettiva, per quel suo ricercare la “ur-particella cosmica” o “l’istante primevo dell’universo”– enti questi del tutto virtuali,inesistenti, fabbricati e affannosamente cangiati dalle teorie; insomma, proprio perché privi di realtà, ben si prestano ad essere ricercati e mai trovati, in un moto entropico senza fine. Possiamo, quindi, ragionevolmente affermare che, qualora, nella Big Science, il merito fosse fatto valere, il tempio ginevrino sarebbe rapidamente chiuso e buttate via le chiavi; mentre le energie intellettuali dissipate in quella impresa andrebbero fatte circolare nei luoghi dai quali provengono; il lavoro iperspecializzato di ricerca sostituito con l’attività transdisciplinare di ricerca – piuttosto che interrogare la natura con metodi invasivi che la stravolgono, questa attività si svolge a bassa entropia, nella serendipità, dove ci si limita ad ascoltare risposte a domande mai poste.
In conseguenza, per gli studenti insorti, battersi perché si recluti nell’università altro lavoro di ricerca è come chiedere più di quella stessa cosa che provoca il loro malessere. La fabbrica della ricerca, di per sé, non è certo garanzia di un comune benessere; e non v’è felicità che sia stata intravista, anche fugace, grazie ad essa. Come per qualsiasi altra prestazione lavorativa, anche il lavoro intellettuale va sottoposto ad esame per capire quanto costa alla collettività, quali i risultati e chi ne beneficia socialmente. Così, per tornare al nostro esempio, se, sottraendosi alla ideologia scientista, ci chiedessimo: “a cosa serve il CERN?”, l’onesta intellettuale imporrebbe una risposta definitivamente banale: la ragione economico-politica per la quale il tempio della Big Science sopravvive, in solitudine, alla guerra fredda che lo ha generato, è quella di evitare la disoccupazione per diecimila impiegati altamente qualificati. In breve, siamo solo di fronte ad un ammortizzatore sociale dai costi proibitivi. Qui si mostra nuda l’irrazionalità sistemica della razionalità occidentale che ha subordinato la scienza alla produzione militare-industriale; e non si rassegna ora a pagarne le conseguenze.
Per chiudere senza concludere, queste sono le sfide che si parano davanti agli studenti, sempre che l’insorgenza continui, le occupazioni degli atenei riprendano e si estendano, ed il movimento si radicalizzi, andando alle radici dello stato presente delle cose. Ma di questo, non fosse che per scaramanzia, converrà parlarne una altra volta.