di Renato Covino • 28 Giu 2010 • da micropolis on line
Ieri Fiammetta Modena si è lasciata intervistare dal “Corrierino” sull’università. Nel corso della sua chiacchierata con il reporter ha contestato l’accordo pluriennale tra Regione e Università che ha liquidato come “un tappabuchi”. La Modena afferma che senza un “rovesciamento culturale” sarà difficile pensare ad un rilancio dell’istituzione. Abbiamo già scritto che l’ipotesi di governance proposta della Gelmini non è molto convincente, che l’idea che i privati e gli enti locali entrino nel governo dell’istituzione è – almeno in Umbria – risibile, ma ancor più risibili ci sembrano le proposte della “capa” dell’opposizione. Che sostiene? In sintesi che occorre adeguare i corsi di studio alle necessità del mercato del lavoro umbro. Sfugge alla consigliera regionale del Pdl che, mentre per le funzioni più basse e per quelle medie il mercato del lavoro locale ha le stesse performance di quello nazionale, per le funzioni di pregio i tassi di disoccupazione sono superiori a quelle di altre aree italiane. Più semplicemente nell’industria e nel terziario locali non c’è bisogno di laureati o di ingegneri. Che domanda di alta formazione può venire da realtà di questo genere? Quali dottorati può finanziare o richiedere? A ciò si aggiunge la crisi che nonostante gli esorcismi di Berlusconi c’è ed è destinata a durare.
Peraltro la Modena sostiene che il sistema formativo post sessantottino, il cosiddetto “settantismo”, è finito. Che significa questo? Probabilmente che la formazione universitaria non è più un pezzo dei diritti, ma deve essere volta alla riproduzione delle classi dirigenti. Il merito si risolve allora in una cooptazione selettiva nei ceti dirigenti di persone provenienti dalle classi popolari. Ma per far questo non occorre un’università con un paio di milioni di iscritti: stante la situazione ne bastano sei-settecentomila. E’ questo il rovesciamento culturale che propone Fiammetta Modena? Perché non lo dice chiaramente?
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