Intervista al filosofo francese Jean Luc Nancy, a cura di Roberto Ciccarelli [Il Manifesto]
A forza di rappresentarla come l’unico modo di assicurare il bene comune, l’etica, il diritto, la civiltà, la democrazia è diventata insignificante. Università e libertà di ricerca, difesa della legalità costituzionale contro il populismo e definizione delle competenze tra Stato e Chiesa, sono solo alcune delle sfere da cui emerge la sensazione che il vero problema della democrazia sia la sua stessa definizione. L’intervista al filosofo Jean-Luc Nancy, avvenuta durante la sua partecipazione a un convegno organizzato dall’Università Roma 3, si concentra su questi punti. «Più che come regime di governo – afferma Jean-Luc Nancy che alla democrazia sta dedicando un’inchiesta che non si lascia intimorire dalle fluttuazioni del senso comune – oggi è necessario capire in che modo la democrazia è un’idea regolatrice del nostro essere-in-comune».
Uno dei luoghi dove dovrebbe esprimersi questa idea è l’università. A lei che ha insegnato sia in Europa che negli Stati Uniti vorrei chiedere che cosa è diventata questa istituzione?
Credo che abbia perduto il senso della propria istituzione, il suo essere un sapere che ricerca. Oggi l’università è prigioniera di un circolo vizioso. Il suo scopo dichiarato è di restare universitaria. I professori sono potenti mandarini che non fanno nulla se non mantenere il proprio potere. Una situazione non molto diversa da quando iniziai i miei studi alla Sorbona. Per me fu un’esperienza penosa. Non c’era quasi niente, salvo Georges Canguilhem, Paul Ricoeur, Jean Wahl, ma il sistema era vecchio come l’intero sistema degli studi in Francia e in Europa. Era molto facile fare esami. Si leggeva il manuale di Gurvitch e si passava sociologia. Si leggeva Jankèlevitch e si passava filosofia morale. Era così per tutti gli insegnamenti. Il Sessantotto portò alla democratizzazione dell’università. Da studente lottai per questo obiettivo militando nell’Union democratique des etudiants français. Avevamo una serie di rivendicazioni molto forti come il pre-salario studentesco. Ci stavamo preparando per il lavoro ed era giusto avere diritto ad un salario. Fu una lotta molto importante, anche se non credo che abbia prodotto dei risultati. A quel tempo, però, tutte le persone di sinistra non capirono che per democratizzare l’università bisognava andare contro la stessa idea di università. Il Sessantotto ha rappresentato la crisi della democrazia nell’università, ma noi ci siamo limitati a chiedere solo un’università più «nuova» e «giovane».
In quale modo l’università può tornare ad essere democratica?
Non c’è dubbio che oggi esiste il bisogno di un luogo in cui la libertà del sapere e della ricerca siano garantite. Ma se questo è il ruolo dell’università, allora l’università dovrebbe lottare per diventare un luogo aperto, un’università della pura apertura, un’istituzione senza alcuna condizione. Del resto è stata questa la premessa che ha reso possibili l’università scolastica di Tommaso D’Aquino, Alberto il Grande o Giovanni Scoto e quella dell’idealismo tedesco di Humboldt, Kant e Hegel, di cui la Francia e l’Italia sono state le eredi. L’università deve ritrovare il proprio senso interrogandosi su cosa è diventato il sapere. Esso non corrisponde più all’idea di comporre saperi diversi in un unico grande edificio né alla produzione di saperi in base ad un modello. Questa idea è tramontata nel XX secolo quando è avvenuta un’enorme estensione dei saperi tecnici, mentre l’apprendimento di questi saperi avviene sempre di più all’esterno dell’università. È già accaduto al tempo di Galileo o di Vesalio quando si imparava a costruire le armi da fuoco, le città o gli strumenti della produzione nelle scuole tecniche di medicina, d’architettura o di ingegneria. Nell’università allora non si produceva infatti nulla. I filosofi non insegnavano, ma vivevano delle proprie fortune come Cartesio o facevano i diplomatici come Leibniz. Una situazione molto simile a quella attuale. I governi europei reagiscono alla crisi dell’università imponendo un modello ispirato alla «competitività» e al «merito».
Come giudica questi tentativi di riforma?
Sono riforme ambigue che cercano di uscire dalla democratizzazione concedendo alle università l’autonomia e mettendole in competizione. Per farlo bisogna che si specializzino e che cerchino fondi dalle imprese. Non credo che sia del tutto negativo obbligare le università a darsi una personalità, ma queste riforme hanno imposto la selezione e il numero chiuso. La selezione è l’opposto della democrazia. La grande tradizione universitaria non ha nulla a che vedere con la formazione professionale. Ma sulla spinta del modello americano, che ha esercitato un ruolo davvero pessimo, le università sono diventate proprio questo. A chi pensa che questo sia l’unico modo per finanziare il sapere, ricordo che negli Stati Uniti, Harvard, Stanford e Cornell e tutte le università della Ivy League non hanno problemi di fondi, ma non possono essere definite università democratiche. Il sistema europeo sarà anche burocratico, ma almeno garantisce ancora una certa uguaglianza. In America tutti sanno che tra una laurea ad Harvard ed una a Denver esiste invece una differenza enorme.
Nelle ultime elezioni regionali in Francia l’astensione ha superato la metà dei votanti, in Italia si aggira ormai sul quaranta per cento. È una protesta contro la democrazia oppure è un suo rifiuto radicale?
Se fosse un rifiuto ci troveremmo davanti ad una volontà rivoluzionaria. L’astensionismo è invece il sintomo di un profondo disinteresse pieno di recriminazioni. È sempre accompagnato dall’idea che «non ne vale la pena», che tutti quelli di destra e di sinistra sono la stessa cosa, che nessuno mantiene le promesse e i politici sono tutti mentitori. In questo atteggiamento è avvenuta la congiunzione tra la crisi generale dell’agire politico e il cinismo che in Francia si esprime con la frase Tout pourri, sono tutti corrotti, marci. Pourriture è un’espressione fascista che oggi è diventata un potente vettore di identificazione dei politici e del loro modo opportunistico e calcolatore di fare politica. Il carattere sempre più giustizialista della politica, di cui l’Italia fornisce esempi insuperabili, e il piacere nel denunciare sui giornali gli scandali privati dei politici ha creato l’idea che stiamo vivendo in un mondo mafioso più che in un regime democratico. Hannah Arendt lo ha spiegato bene ne Le origini del totalitarismo. Non dovremmo mai dimenticare che i fascismi sono stati la risposta alla corruzione della democrazia.
Cosa pensa dei politici che in Francia e in Italia fanno appello al popolo per superare la crisi della democrazia?
Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi hanno capito che tutte le risorse della sinistra sono completamente esaurite. Da buoni calcolatori sono riusciti a cogliere l’occasione per prendere il potere. Ma ciò che trovo davvero impressionante è che non solo fanno i loro calcoli a partire dal popolo, ma riescono talvolta a spingere il proprio cinismo fino al punto da sostenere che loro, i Capi, sono come tutti gli altri, i molti. Siamo davanti ad una strana forma di populismo. Di solito l’appello al popolo viene usato per abolire tutte le mediazioni, dimostrare che la democrazia è legata ad un’unità nazionale e ad un «popolo» che ha profonde radici storiche e geografiche. Berlusconi e Sarkozy vogliono dimostrare che la loro vita privata è uguale a quella del popolo che governano.
Ritiene che sia utile opporsi al populismo in nome del principio di legalità? Oppure il populismo troverà sempre un modo per dimostrare di essere più efficace ed attraente della democrazia?
Ho paura che il populismo sia più forte di questo tipo di opposizione. Ho anche paura che la difesa della democrazia come legalità sia debole. Questo è vero, ma allo stesso tempo bisogna comunque difendere la legalità della legge. L’enorme dibattito che la questione del Burqa ha creato in Francia ne è un esempio. Il governo vuole assolutamente vietarlo. Il Consiglio di Stato ha già risposto due volte che non ravvisa alcuna ragione costituzionale per farlo. Vedremo come si pronuncerà la Corte Costituzionale. In questo caso, la difesa della legalità è la difesa della libertà delle persone ad indossare il Burqa, sebbene in Francia siano pochissime le donne ad usarlo. Credo che per affrontare il populismo si dovrebbe sottrargli il concetto di «popolo». Il populismo pensa che il popolo sia un’identità presupposta e sempre uguale a se stessa. L’appello al popolo istituisce ogni volta un popolo che non è mai uguale a se stesso.
Ha scritto che la verità della democrazia è il comunismo. Può spiegare il senso di questa affermazione?
La democrazia è portatrice di un desiderio politico, culturale e direi anche spirituale che è stato intaccato e malmenato per tutta la storia moderna dopo il Rinascimento, quello dell’essere-in-comune. Stando agli atti degli Apostoli, ripresi poi da Engels, sin dal tempo dei primi cristiani il comunismo ha tradotto «politicamente» questo desiderio. Nel medioevo, designa il modo giuridico di proprietà dei monasteri dei dominicani, ad esempio. La borghesia diventa il nemico del comunismo perché sequestra il senso dell’appartenenza comune e lo rinchiude in una comunità chiusa di proprietari. Più che come una forma di governo, di cui conosciamo gli esiti fallimentari, oggi il comunismo dovrebbe essere inteso come il desiderio di affermare la propria singolarità insieme a quella degli altri. Un desiderio che apre nella democrazia uno spazio per essere tutti insieme, tutti e ognuno allo stesso tempo. Uno dei possibili esempi che potrei fare è il movimento queer che non è riducibile all’identità eterosessuale né a quella omosessuale. Rispetto ad un’idea di democrazia ridotta all’equivalenza generale dei valori, questa sarebbe la premessa per una politica democratica che rinuncia ad essere identificata in un dio o in una repubblica, lasciando un’apertura per molteplici identificazioni, appartenenze e per la loro partizione.