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La breve vita infelice della campagna d’estate del compagno Marco Meloni

di Guido Martinotti

Puntuale come i serpenti di mare è tornato il tormentone estivo sull’Università, ma, oltre alla disperante sensazione di  déjà vu, déjà entendu, quest’anno si è dovuto far fronte anche a qualche nuova alzata di genio. Parlo della balzana proposta del compagno Marco Meloni, responsabile Università del PD, sottoscritta entusiasticamente dal ministro Gelmini alla ricerca di una qualche liana salvatrice, di mandare obbligatoriamente in pensione i vecchi professori a 65 anni, che mena un altro colpo suicida alla già scarsa credibilità del PD nel mondo universitario. E’ una proposta squisitamente demagogica che cercava di risolvere problemi di sistema con un colpo di muňeca, un po’ come bruciare i mobili di casa per alzare la temperatura nelle stanze: alla fine non ci saranno più i mobili, ma il problema del riscaldamento rimarrà tale quale. Non è sorprendente, perché ormai la cosa è diventata strutturale, che questa proposta sia stata sostenuta, con una campagna di disinformatia che non ha l’eguale, dalla Premiata ditta Giavazzi & Co che ha trasformato il principale quotidiano italiano in un house organ del ministero Gelmini. E’ interessante ricostruire la storia di questo emendamento dalla breve vita infelice (è stato bocciato al Senato la mattina del 29 luglio) perché partita il 23 luglio 2010 (“Mandatemi in pensione ma tutelate la qualità”) con un articolo moderatamente critico di Michele Salvati, la campagna è proseguita con interventi di pura propaganda di Angelo Panebianco e Francesco Giavazzi, con il contorno di  articoli variamente critici di altri quotidiani, ma occorre arrivare al 28 luglio per trovare finalmente un articolo documentato su La Stampa capace di fornire all’opinione pubblica italiana informazioni rigorose e non ideologiche, peraltro in larga misura già disponibili agli esperti.  All’opinione pubblica italiana in senso lato, con esclusione dei lettori del principale quotidiano, che potrebbero anche domandarsi come mai una proposta sostenuta a fanfare spiegate dagli opinionisti del proprio quotidiano di elezione abbia poi trovato una bocciatura sonante.
Intendiamoci di per sé la proposta di abbassare l’età pensionabile non avrebbe nulla di scandaloso: come ricorda Salvati, in Francia e in UK già è così e se potesse tradursi davvero in uno ricambio consistente del corpo accademico a breve periodo (sia pure con un taglio indiscriminato di teste) si potrebbe anche sostenere. Il governo laborista del dopoguerra inglese ebbe l’idea di utilizzare il grandissimo numero di ufficiali che nelle colonie avevano avuto esperienze di formazione della truppa, come insegnanti nelle scuole del regno, utilizzando tecniche allora avanzate di  multimedialità – le famose “filmine”, che sono poi state mutuate in Italia dalla Società Umanitaria. Si dirà che l’università è un’altra cosa, ma la vera innovazione è sempre educativa e la generazione che passò  nelle scuole pubbliche dei laboristi la ritroviamo oggi nella classe dirigente inglese, compresa quella accademica. Ma grandi imprese riformatrici di questo tipo richiedono una visione, mentre nel caso italiano, come vedremo, si è trattato semplicemente di una triste boutade, apparsa fin dall’inizio impraticabile a chi non aveva sugli occhi, non la classica fetta di salame, ma una mezza filzetta di Felino per orbita, come in un cartoon di Jacovitti.
Il problema è che la boutade della pensione a 65 anni è anche una bufala, come tante, buttata lì, come tante, senza troppo pensare, che è fatica, e andata come era prevedibile in cavalleria, ma purtroppo non senza aver prima scatenato il parlamento mediatico, stendendo una cortina fumogena sul dibattito in corso sulla sedicente riforma Gelmini dell’università, e suicidalmente allontanato ancora di più il corpo docente universitario italiano dalla politica del partito che in teoria più di ogni altro potrebbe riceverne i consensi elettorali. Comunque, poiché l’Italia è il paese in cui, le riforme, se minacciano di avere un qualche effetto, vengono subito maciullate dal profondo misoneismo gattopardesco dell’establishment intellettuale a l’appuy della Gelmini, si è subito trovato il grido di guerra capace di avviare il discorso sulla solita “Impasse de la fumisterie” distogliendolo dalla attenzione al resto di una legge sciagurata.  “Se si mette un limite di età, occorre però distinguere tra buoni e cattivi” altrimenti si rischia di mandare in pensione anche docenti eccellenti. Right on! Ma per dire una ovvietà di questo genere non c’era bisogno di ricorrere a un team di eccellenti professori ordinari (tutti più o meno attorno ai 65 anni) bastava un qualsiasi ricercatore: o mi sbaglio? E’ evidente che ogni limite generalizzato d’ età, compreso quello attuale (praticamente quello ora proposto) di 70 anni, è inerentemente neutrale rispetto alla qualità del singolo docente. Il problema è che finora nessuno ci ha detto come si potrebbe distinguere tra i buoni  e i cattivi e come cacciare gli uni e tenere gli altri – si noti che il problema si presenterebbe già ora con i limiti attuali, che invece mandano via tranquillamente buoni e cattivi senza che nessuno abbia mai sollevato il problema. Mi dispiace  che Michele Salvati, (l’unico che peraltro con la usuale moderazione e competenza ha avanzato qualche garbata critica) abbia contribuito ad avviare la discussione sul binario morto del tormentone irresolubile di mandare in pensione i cattivi docenti e di tenere i buoni, dando l’impressione  che questo sia possibile. Infatti butta lì “è ragionevole quella soluzione che lascia in università i docenti più capaci, sia in termini di qualità della ricerca che di qualità della didattica, ed esistono oggi indicatori abbastanza affidabili per misurare entrambe”(Corriere,25 luglio). Ennò caro Michele, tu hai insegnato anche in università straniere e sai benissimo che questi indicatori sufficientemente “affidabili” per una operazione nazionale non ci sono e che l’unico modo per tenere (o acquisire) i docenti buoni è la decisione del corpo docente interessato; punto. L’amico  Jerome “Jerry” S. Bruner, classe 1915 (per chi non lo conoscesse, ma credo pochi, l’inventore del cognitivismo)  insegna alla Law School di NYU perché quella Facoltà ha deciso che gli serve: é uno dei privilegi insindacabili del sistema universitario mondiale che siano i pari a giudicare. Ma in Italia è stato fatto passare, anche e soprattutto grazie al quotidiano  su cui scrivi,caro Michele,  il mito stalinista (o maoista, se vuoi) che i consigli di Facoltà sono delle bande di delinquenti: ne deriva che occorre ricorrere a complicati (e iniqui e inefficienti e corruttori) sistemi di controllo esterni, secondo una sindrome buro-italiota che sta distruggendo tutto il paese e di cui alcuni preclari esempi sono contenuti nelle bizantine regole concorsuali contenute nel DDL Gelmini. Bizantine come un tormentone di Totò, e altrettanto inefficaci: questi grandi liberisti non hanno capito che più si pesta nel mortaio delle regole, più si producono “rigidità e corruzione”, compagne inseparabili, come ha da tempo scritto l’Economist, del sistema italiano.
Le ragioni per cui questa ennesima alzata di genio estiva non funziona, e sarà da ultimo mandata in cavalleria come molte altre bufale prodotte dall’insano inciucismo tra PD e governo, non hanno soltanto a che vedere con la pratica impossibilità (oltre che la comprovata iniquità)di separare il grano dal loglio su scala nazionale, ma dipendono da altri importanti fattori che gli interventi ideologici non non hanno fatto emergere.
a)La prima è che nei prossimi anni il pensionamento  di ordinari e associati assumerà le proporzioni di una valanga, come fa notare Giorgio Israel  Il Messaggero, 26  Luglio 2010. Secondo i calcoli fatti da Paolo Rossi (Professore di fisica di Pisa e membro del CUN) “ Entro il 2018 il 50% degli ordinari e il 25% degli associati attuali andrà comunque in pensione, al ritmo di circa 1500 uscite all’anno, producendo di per sé risorse sufficienti per un turnover fisiologico, se fossero totalmente reimpiegate in reclutamento e progressioni di carriera. (Paolo Rossi, “Osservazioni sulle ipotesi di pensionamento” documento per il CUN). Quindi farsi belli proponendo qualcosa che sta già avvenendo è un po’ come quegli sportivi da sofà che condividono gli sforzi di un Pantani o di un Armstrong muovendo le gambe di fronte al televisore, oppure come quei giardinieri della domenica  che si mettono a innaffiare i fiori dopo aver letto che è in arrivo un nubifragio.  Una vera operazione da mosca cocchiera.

b) La seconda (che nessuno degli esimi colleghi economisti e politologi ha preso i considerazione) è che  i più terrorizzati di un limite massimo di carriera a 65 anni sono proprio i ricercatori che dovrebbero beneficiarne. I quali  essendo in larga parte entrati in carriera attorno ai 40 anni si ritroverebbero non solo ai minimi di pensione (cioè 700 euro mensili) che è la prospettiva degli attuali ricercatori) ma con un reale rischio di non riuscire neppure a raggiungerli, con conseguenze catastrofiche per una generazione. Una volta tanto mi trovo in accordo con i moderati del CNU, che nella loro lettera aperta al Ministro (sul sito CUN e sul Corriere ) la accusano apertamente “di aver mandato al macero alcune generazioni di ricercatori [e di aver]  allargato le maglie del precariato e ristabilito il controllo dei Baroni sull’Università debilitata” (Il Corriere 19 Luglio, http://cnu.cineca.it/nazionale06/avviso_cnu.pdf
d) Altro tema, decisivo peraltro, che i geniali commentatori economisti non si sono neppur sognati di trattare è: quali sarebbero gli effetti di un esodo massiccio sulle casse della previdenza? Disastrosi,  pare davvero, secondo il già citato studio ottimamente documentato del prof. Paolo Rossi dell’Università di Pisa (paolo.rossi@df.unipi.it) per il CUN, che naturalmente nessuno degli opinionisti al lavoro sui piombi in questi giorni ha citato, del resto neppure lontanamente sfiorando questo importante tema, tanto i dati non servono contano solo le boutades. Solo La Stampa del 29 luglio riporta i dati del rapporto del Prof. Rossi al CUN, in cui  si calcola in 500 milioni il carico sulla previdenza, e non c’è dubbio che il niet di Tremonti abbia contato nella trombatura del 29 luglio.  Quindi anche la scusa di far cassa si è  rivelata fallimentare, come tutte le demagogueries in cui il Ministro Gelmini e questo governo sono specialisti. Invece di risparmiare, la messa in pensione  generalizzata a 65 (oltre che inutile, visto che comunque gli odiati baroni sono in gran numero in uscita normalmente nei prossimi anni) si rivelerebbe disastrosa. Ecco cosa succede quando si usa la politica e la demagogia in luogo della ragione. Fortunatamente credo che questa alzata di genio avrà prodotto solo un po’ di polvere di parole, ma la cosiddetta riforma Gelmìni, vera insalata russa, illeggibile oltre che impalatabile, contiene molte altre code avvelenate e sarebbe utile che gli accademici si ribellassero davvero contro il provvedimento in generale .

c) Nessuno poi si è  ricordato poi di fare i conti con le regole vigenti cosiddette del turnover. Attualmente, quando un ateneo vuole bruciare i mobili di casa, davanti alla porta della caldaia trova il Ministro Tremonti che, tanto per cominciare, se ne intasca  la metà. In altri termini se va in pensione (o si trasferisce) un docente ordinario, che vale, come si dice, 1 punto organico, l’Ateneo non potrà sostituirlo con un altro ordinario dello stesso valore, ma si troverà intanto decurtato della metà del suo budget cioè 0.5 del costo della persona andata in pensione. Vabbè, si dirà, aspettiamo che si liberi un altro posto e l’ateneo potrà ricominciare, sia pure con risorse ridotte. Ehh!  Troppo facile. Voi dimenticate che in questi anni la politica del MIUR non è stata fatta dagli organi istituzionali, ma da un team (chiamiamolo così) di consulenti prevalentemente provenienti da università private e fortemente appoggiati da Confindustria che al grido di “siamo noi la California, siamo noi la libertà”, hanno ottenuto i seguenti ottimi risultati:
1)derubato gli aumenti di stipendi per due anni e passa a circa 7000 giovani, ritardando il loro ingresso in carriera, o miglioramento di posizione, anche a fini pensionistici (hanno perso i soldi ora, in misura variabile da qualche migliaia a qualche decina di migliaia di uro, e si ritroveranno meno anni di pensionamento dopo);
2)bloccato tutto il sistema  per quasi tre anni, gridando “se non fermiamo i concorsi si bloccherà tutto”;
3) prodotto il più bizantino sistema di selezione dei commissari dei concorsi che si sia visto dai Borboni a questa parte;
4)Introdotto il più burocratico e centralistico bizantinismo di controllo delle università pubbliche, mai visto dal GOSPLAN in giù.  “Siamo  noi la California, siamo noi la libertà”, e  così della metà del bilancio per ogni punto organico che resta all’ateneo (in un sistema in cui secondo la Costituzione italiana le Università sono enti autonomi – cioè si regolano da soli) del 50% residuo gli atenei possono usare solo il 10% al massimo per chiamare un altro ordinario. Pertanto nel famoso mercato se, per caso, passa di lì un bravo ordinario di fisica, biologia o altro, anche il migliore del mondo, un ateneo non lo può chiamare finché non sono andati in pensione 20 ordinari. La teoria propugnata dalla Premiata Ditta, con l’entusiastico appoggio di vari cervelloni del PD, è che occorre “affamare la bestia”, così correrà meglio. Peccato che gli affamatori intanto si ingrassano.

Sono peraltro mancati del tutto dei ragionamenti meno meccanici sulle diverse competenze in relazione all’età, che variano notevolmente in funzione della disciplina, come emerge dai diversi profili disciplinari a partire dagli studi di Blaug: tutti sanno, per esempio che i matematici, passata una certa età, sono fuori gioco dal punto di vista della innovazione scientifica, non necessariamente della didattica, ma qui parliamo di università, non di liceo. Mentre invece gli storici producono al meglio alla fine della carriera quando hanno accumulato molte conoscenze, il che lascia qualche speranza per molti sedicenti grandi storici che non hanno ancora prodotto un’opera fondamentale. In mezzo ci sono molte diverse situazioni che rendono un limite d’età secco poco funzionale, ma d’altro canto un criterio sostitutivo non è a portata di mano. Se la smettessimo una buona volta con il topos, largamente proiettivo, della questione dei baroni e del potere accademico  e affrontassimo la questione della gestione di un sistema complesso liberi dai detriti dei processi staliniani (approntati da molti nostri colleghi con il manutengolo di giornalisti spesso tanto ignoranti quanto boriosi, per appoggiare la Gelmini e la sua determinata politica di devastazione dell’Università pubblica) ci liberemmo una buona volta della fola delle baronie. Anche Giorgio Isarel, che non è rappresentabile come un pericoloso estremista, su Il Messaggero del 26 luglio scrive “La piega che sta prendendo il dibattito sull’università induce a tornare sulla questione: si diffondono atteggiamenti così negativi nei confronti dell’istituzione da chiedersi cosa possa venirne di costruttivo.” (nulla: perché lo scopo è, appunto, distruggere).
Che il sistema universitario italiano sia affetto da meccanismi clientelari è inutile ripeterlo: del resto sarebbe assolutamente sorprendente che non lo fosse in una società dominata dal clientelismo fin nel più profondo del tessuto sociale. Che per ammazzare le clientele occorra eliminare fisicamente le persone dal sistema è un pensiero puerile: tolti di mezzo questi “baroni” il sistema ne riprodurrà altri ad infinitum, finché ci sarà il meccanismo dei concorsi che è il principale fattore infestante. Se vogliamo, non dico eliminare, ma contenere, le clientele, si deve recidere il legame feudale prima che si formi, impedendo che il docente in formazione coabiti, servendolo, con il suo “maestro” nei primi anni e liberando il legame ideale tra maestro e allievo dalle incombenze e dallo scambio di favori servili che poi durano tutta la vita e, come giustamente dice Perotti, rendono servi sia i  feudatari che i valvassini. Il docente giovane dovrebbe poter essere valutato per quello che è, non per la bandierina che porta e il docente giudicante dovrebbe essere libero di giudicare sul merito e non obbligato a sostenere una data bandierina. Attualmente ciò è impossibile e le invocazioni moralistiche, i lai di indignazione e le inani regole burocratiche di controllo, sono pura e semplice “aria fritta”. Per ottenere il risultato desiderato occorre che la carriera, soprattutto nei primi anni si faccia in un ateneo diverso da quello in cui si è stati laureati. Non esiste altro mezzo, e tutte le pestate d’acqua nel mortai dei concorsi sono fumo negli occhi dei nincompoops.
Da anni mi sgolo su questo punto trovando qualche appoggio privato, ma anche feroci opposizioni. Tempo fa Luigi Berlinguer aveva proposto con Giuliano Amato uno schema che prendeva spunto da queste mie osservazioni suggerendo che non si potesse diventare ordinari se prima, nel corso della carriera, non si fosse passato un certo numero di anni in altri atenei (io suggerivo 10 – che del resto è molto meno di quelli che ho fatto io, non diversamente da esperienze analoghe di tutti tutti quelli della mia generazione, prima di “sistemarmi” a Scienze politiche a Milano – ma mi accontenterei di 5). Lo sventurato ha dovuto ritirare la proposta perché è  stato accusato dai docenti romani di voler “deportare” i professori. “Deportare”, proprio così: quelli non vogliono schiodare il deretano dal proprio quartiere e dai propri negozi neppure se li tiri con un rimorchiatore, altro che mercato e mobilità. Ma il sistema americano ha questa prassi praticamente generalizzata, è rarissimo che un docente ottenga la tenure nell’ateneo in cui ha avuto il PhD, in Germania è una tradizione rispettata fin dal Medioevo, in UK funziona comunque una buona mobilità. E una buona mobilità c’è stata anche in Italia fino a pochi anni fa quando le cricche dei concorsi e i tagli di risorse hanno bloccato il sistema. Bobbio ha insegnato per anni a Urbino, Treves a Messina e via dicendo. C’erano atenei colonie? Si certo, ma era molto meglio per gli studenti e più i generale per le università periferiche che non atenei ghetto dove i locali cominciano e finiscono la loro carriera in provincia, come è oggi. Sono stato molto soddisfatto di vedere che questo concetto ha finalmente sfondato il muro del silenzio leggendo le proposte di Roberta De Monticelli su Il Fatto del 24 Luglio (“Le università del servilismo”) che non condivido al 100%, ma su questo punto sì e senza riserve. In conclusione: licenziare i baroni non serve a nulla se verranno sostituiti da baronetti che perpetueranno il sistema, lo capisce anche un vecchio professore un po’ scemo.
Forse poi, a studiosi di valore, scienziati sociali o letterati, abituati a spaccare per mestiere il capello in quattro nelle rispettive discipline, si potrebbero chiedere ragionamenti un po’ più approfonditi, basati sulla letteratura e sulla documentazione e non la solita opinione che non durerà l’espace d’un matin. Angelo Panebianco (che non è un barone) ripropone una revisione del “fuori ruolo” testé abolito (le  riforme nel nostro paese sono soprattutto una riproposizione del vecchio appena abbandonato) e tutto sommato mi trova d’accordo come idea, ma poi ci ritroviamo con la solita fola del potere baronale, e le soluzioni proposte sono tutte lavorate su questo trito mito.  Chiederei a lui e ad altri opinionisti una riflessione più approfondita e libera dalle ideologie pseudo liberiste e dai topoi ideologici per cercare di discutere serenamente del  migliore impiego possibile dei diversi talenti stratificati nel corpo accademico. Scrive infatti Panebianco (“Un’idea su pensioni e ricerca”, Corriere, 25 luglio): “Al compimento del sessantacinquesimo anno, come propone Giavazzi, tutti i professori perdono il diritto di entrare in commissioni di concorso e di detenere cariche direttive (presidenze di facoltà, direzioni di dipartimenti, corsi di laurea, cliniche universitarie, eccetera). Forse non si elimina del tutto ma certo si riduce grandemente il cosiddetto «potere accademico» di questi docenti. Per giunta (ed è l’integrazione che propongo – prosegue Panebianco ), i professori che accettano di andarsene in pensione a 65 anni, ricevono un bonus economico e non sono penalizzati a fini pensionistici rispetto ai professori che scelgono di restare. I docenti interessati solo ad esercitare potere accademico sarebbero incentivati ad andarsene. Liberando posti da destinare ai più giovani. Resterebbero invece i professori ultrasessantacinquenni con la perdurante passione per l’insegnamento e la ricerca e, proprio per questo, capaci di dare ancora molto all’università.” (e anche quelli che svolgono molte attività extrauniversitari retribuite, ndr).
Tutto ciò è molto interessante (anche se francamente questa veterofobia da “rivoluzione cuturale”  in un sistema economico che dovunque si sta muovendo verso l’allungamento dei limiti di età mi irrita non poco), ma come credono di realizzare tali progetti gli esimi colleghi? Con un registro nazionale dei reprobi? Alla via con i ricorsi al TAR. E chi farebbe questi elenchi di proscrizione ? Altri baroni? In effetti si tratterebbe né più né meno, di sottoporre i docenti arrivati a 65 anni a un ultimo concorso a lista aperta, con le rispettive commissioni, i bizantini sorteggi escogitati dalla Premiata ditta “Siamo noi la California ecc”, che si aggiungerebbe agli attuali 6 concorsi che si devono fare per diventare ordinari in Italia, più, per le generazioni recenti l’esame “nazionale” di dottorato. Ma è mai possibile che chi continua a pestare nel mortaio delle regole dei concorsi, producendo norme da  Helzapoppin o Alice nel paese delle meraviglie, come quelli contenuti nel DDL testé approvato, non si siano posti la domanda di come mai sei/sette concorsi per persona non abbiano prodotto i risultati desiderati in più di mezzo secolo di storia accademica? Forse invece di pestare e rimestare l’acqua nel mortaio delle regole concorsuali, e addirittura a proporre il “concorso Panebianco” per non andare in pensione, arrivando a esiti drammaticamente risibili come quelli dell’attuale sistema (delizia della burocrazia romana e dei TAR di tutto il paese, spacciati come modernità finalmente “meritocratica”), la Premiata ditta potrebbe mettere la testa “out of the box” e pensare a qualcosa di diverso, come per esempio suggerisce Roberta de Monticelli nel già citato “L’università del servilismo”, Il Fatto, 24 Luglio 2010).  La verità è che questi signori non vogliono migliorare il sistema, ma solo affossarlo.
Siamo forse alla Rivoluzione culturale quando si mandavano i vecchi professori nei campi per mettere i giovani a dirigere?  E in quale sistema organizzativo le competenze dei più anziani vengono eliminate in favore di quelle (supposte) dei più giovani? Questo non è altro che il detrito ideologico della campagna di  maccartismo scatenato due anni fa da parte di una lobby di università private in rappresentanza della Confindustria e in combutta con il berlusconismo rappresentato dall’Avvocato Gelmini, campione della meritocrazia per gli altri, perché, quanto a lei,  quando si trattava di fare l’esame di avvocato “siccome aveva fretta di lavorare” è corsa a Catanzaro perché la sua preparazione non le permetteva di affrontare gli esami nella sua città di residenza. Il problema per tutti noi e per l’università italiana è che questa catastrofica operazione politica è sostenuta da ideologhi e da importanti fogli di stampa e si arriva alla follia di sostenere che un docente, solo perché anziano va eliminato perché è anche portatore di una lebbra chiamata “potere accademico”. Sono i pericolosi sottoprodotti di  “una campagna carica di disprezzo e di irrisione e da una serie di atti governativi devastanti (ampiamente condivisi, nella sostanza ispiratrice, anche dall’opposizione)” (traggo dall’appello sul sito www.nuvole.it) che ha irretito persino chi l’ha iniziata facendo loro perdere il senno delle discipline che essi professano, nessuna delle quali contiene teorie organizzative che possano portare seriamente a sostenere che la seniority in una organizzazione è una liability piuttosto che un asset. Personalmente sono sempre stato a favore dell’abolizione delle facoltà, ma visto che esistono, dubito che si possa fare il preside senza la necessaria autorità. Forse l’editto Giavazzi-Panebianco dovrebbe estendersi anche alle colonne dei quotidiani. Lì come è noto il potere accademico non conta, ma se il limite dei 65 anni, oltre che ai giornalisti, si applicasse anche agli opinionisti, chissà, avremmo magari qualche idea nuova in più.
Ma vediamo finalmente la scopertura delle pentole di tutta questa campagna pro-università private. Il Prof. Giavazzi, rispondendo alla lettera della ricercatrice Serena Scotto su Il Corriere del 27 Luglio “Università; se i privati aiutano i migliori”, scopre le carte su tutto il senso dell’operazione maccartista, e si pavoneggia gongolante della bontà delle pratiche della sua università privata in uno spot a favore del proprio ateneo (che normalmente avrebbe dovuto recare la scritta “inserzione a pagamento”) e che cela la natura privatistica e self serving di questi commentatori che, secondo le migliori tradizioni, non conoscono neppure da lontano le regole del conflitto di interessi e del fair play.   Nel merito delle belle cose che può fare il suo ateneo con i soldi, ha ragione, ragionissima il prof. Giavazzi (anche se qualcuna la fanno anche altri, ma che importa? qui non stiamo informando, stiamo “formando” opinioni) e non possiamo che invidiarlo, ricordando che è fra i sostenitori della teoria che occorre “affamare la bestia università per farla correre meglio”.  Lui però è tra gli affamatori e la sua università è ricca può fare tante belle cose.  Io qui  posso invece descrivere puntualmente, con un esempio concreto, il punto di vista degli affamati e di come i morti di fame possano correre, magari a quattro zampe, dando una misura molto precisa della ormai realizzata differenza tra affamatori e affamati. Personalmente sono molto invidioso della possibilità che hanno i colleghi  di quella ottima università di chiamare docenti stranieri, ma venendo (ormai non sono più in organico da molti anni perché prima di essere pensionato ho passato qualche anno al SUM di Firenze) dalla parte degli affamati, cioè da UNIMIB, so che questa possibilità, i colleghi morti di fame della bestia affamata non ce l’hanno. Harvey Molotch è un importante sociologo americano, vincitore del premio Sorokin per la sociologia. Nel 1985 era il Chairman del Department of Sociology della UCSB che mi ha invitato a insegnare per un semestre, stabilendo un rapporto che poi si è prolungato in successivi inviti annuali fino al 2001, e poi successivamente anche a NYU dove si era intanto trasferito anche Molotch. Grazie a questa lunga frequentazione e ad altri contatti tra vari colleghi di UNIMIB e UCSB, Harvey Molotch è uno degli studiosi americani che ha rapporti più stretti con il mio ex Dipartimento della Bicocca, tanto che è venuto da Londra per inaugurare il Dipartimento quando è stato creato nel 2000. E da allora è stato invitato in più occasioni e ogni volta è stato retribuito con i compensi delle università affamate (poche centinaia di euro per lezione, mai più di tre lezioni, spese di viaggio in economy, il più delle volte utilizzando la presenza del prof.Molotch da questa parte dell’Atlantico). Ovviamente al Dipartimento sarebbero stati felici di avere per più tempo questo collega che noi (mi ci metto anche io, perché allora c’ero) abbiamo fatto conoscere, da tempo, agli studiosi italiani: oggi UNIMIB non si può neppure permettere di pagare i quattro spiccioli di una conferenza. Invece l’università privata del prof. Giavazzi gli appena offerto 50.000 euro per un ciclo di lezioni: sono ovviamente contento per Harvey Molotch e per gli studenti di quell’università, ma non posso che provare una grande amarezza per i colleghi morti di fame dell’università pubblica affamati dalla Premiata Ditta Gavazzi & co, che al prof. Molotch devono rinunciare; ecco quale è il destino che si profila per le università pubbliche che per di più devono anche sorbirsi la pubblicità redazionale gratis degli affamatori. Che peraltro non rinunciano alla pura e semplice falsità propagandistica: scrive ancora Giavazzi. “Ma il punto fondamentale è quello che ho affrontato alla fine del mio articolo (precedente ndr). Se la legge non toccherà l’età del pensionamento, nei prossimi anni di posti all’università non ve ne saranno neppure se passasse uno di quegli emendamenti che riserva tutti i posti disponibili a chi già c’è. Questa è la battaglia da fare”. Oggi sappiamo che, per fortuna quella battaglia è stata persa,ma non avrebbe affatto prodotto i benefici promessi con tata sicumera e mi domando come si concilia questa autorevole affermazione da economista con il dato fornito dal prof. Rossi, docente di fisica dell’università di Pisa, nel suo rapporto per il CUN. “La fuoriuscita annuale di circa 1000 ordinari e circa 500 associati determinata dalle norme attuali pone già di per sé un pesante problema di continuità culturale, scientifica, didattica e organizzativa al sistema universitario, e comunque, in caso di totale restituzione del budget, garantirebbe già i fondi necessari a un adeguato ricambio del personale docente (la media del reclutamento negli ultimi venticinque anni è sempre stata di poco meno di 1500 professori all’anno, con fluttuazioni derivanti quasi soltanto dal variare della normativa)-corsivo mio. Una fuoriuscita dal sistema di circa 2000 ordinari e circa 1000 associati annui per i prossimi cinque anni, che deriverebbe dall’abbassamento dell’età di pensionamento, avrebbe invece effetti devastanti in tutti gli ambiti sopra indicati: ricerca, didattica e gestione sarebbero in moltissimi casi pressoché paralizzate, né è immaginabile un meccanismo di così ampia sostituzione della docenza che sia insieme sufficientemente rapido e adeguatamente selettivo. Nello scenario più probabile si avrebbe un reclutamento eccessivamente concentrato su poche classi d’età, che, anche se non si trattasse di una ope legis, riprodurrebbe a distanza di trent’anni gli stessi effetti del DPR 382/1980 (effetti di cui il sistema universitario ha pagato e ancora paga le conseguenze) e quindi si pregiudicherebbe nuovamente uno sviluppo armonico del sistema per un ulteriore trentennio”. Ne dobbiamo concludere che i fisici scienziati sanno trattare i dati meglio degli economisti ideologhi?
Invece di fare gli avvocati e ideologhi della Gelmini custa c’al custa, non sarebbe stato più utile che questi intellettuali avessero aperto un dibattito serio sui temi dell’università? Per esempio: quale è il significato della seniority in una organizzazione complessa? E’ noto che uno dei criteri di competenza in una organizzazione è la durata di permanenza: “old soldiers never die”.  Perché non deve valere per le università? Vogliamo mettere un ricercatore a fare il Rettore? C’è da dubitare che sia una buona soluzione. Forse però non è sbagliato puntare ad avere studiosi giovani a dirigere dipartimenti: il salto di qualità e consapevolezza tra la docenza ordinaria e la direzione di un dipartimento è notevole ed è bene che si compia in relativamente giovane età, anche perché i Direttori di dipartimento saranno i rettori di domani. Discutiamone, ma lasciando da parte la bufala dei 65 anni: basta riconoscere ai ricercatori quello che chiedono giustamente da anni e cioè il fatto puro e semplice che facendo le stesse cose che fanno gli altri gli sia riconosciuto lo status di docente. Non si può – come sanno tutti, ma non si dice – perché siccome i professori di giurisprudenza hanno il diritto di praticare in Cassazione, l’estensione ai ricercatori del riconoscimento di status docente inciderebbe su colossali interessi costituiti. Così un privilegio, come sempre in Italia, genera altri guai.
I vecchi professori sono migliori didatti dei giovani ricercatori? E’ assai opinabile. Forse dobbiamo invece considerare che non sempre il vecchio professore riesce a rifondere nella lezione la sua eventuale maggiore competenza scientifica e che fare lezione è fisicamente gravoso. Come sanno perfettamente,  tutte le generazioni di studenti da che mondo e mondo, compresa la mia ovviamente, il vecchio docente sputazza e quindi meglio non stare nei primi banchi. Nella media i vecchi docenti tendono a essere ripetitivi e a prepararsi poco, mentre i giovani devono impressionare e ci si mettono di buzzo buono.  Ma vogliamo discuterne senza dare per scontati vecchi luoghi comuni? Ovviamente tutto ciò varia moltissimo da disciplina a disciplina e anche da tipo di insegnamento a tipo di insegnamento . Non sarebbe meglio che Il vecchio docente fosse in linea di massima esentato dai corsi di base, ma venisse impiegato più massicciamente nei corsi specialisti e avanzati, nei seminari e nei tutorials? (anche se purtroppo il sistema inefficientemente burocratico degli apparati ministeriali del MIUR non è mai riuscito a introdurre misure un po’ meno rozze del classico “tot di ore frontali”. Un assurdo ai tempi di Internet).
A proposito del quale un influsso forzoso di un certo numero di  docenti sperimentati  nelle università-business telematiche mitigherebbe quella che (non in tutti i casi, ma in quelli prediletti dal Berlusconismo senzaltro) si profila altrimenti come una sciagurata truffa su cui forse non sarebbe male che gli opinionisti chiens de garde della tradizione accademica si esercitassero con più costante attenzione. Ma non può essere così perché il pacchetto distruttivo della Gelmini comprende tre testate nucleari: a) affossamento dell’università pubblica b) sostegno all’università privata, con ampio ritorno di quelle clericali e c) sostegno ai “diploma mills” telematici per la plebe, come ha segnalato con forza Berlusconi visitando il CEPU per dire incontrastato fruste lepidezze sulla on. Bindi, a conferma del livello dell’audience.
Siamo  poi sicuri che i vecchi professori non siano invece i migliori direttori di gruppi di ricerca? fermo restando che non è escluso che le ricerche più innovative forse le fanno i giovani (ma non i giovanissimi, e anche qui dipende dalle aree disciplinari)? Dirigere un gruppo di ricerca, che significa anche occuparsi del sistema di finanziamento e reperimento delle risorse, e dei contatti con altri gruppi, forse è proprio quello  che un docente senior sa fare al meglio.
Un altro impiego significativo, dei docenti “fuori ruolo” o in pensione, visto che si parla tanto di valutazione, potrebbe essere quello, retribuito ad hoc, delle visite che sono un complemento essenziale alla valutazione (temo proprio che nel sistema italiano non ci saranno, ma qui stiamo parlando di modelli ideali e pratiche invalse a livello internazionale, non della devastazione gelminiana). Qui il docente sperimentato potrebbe dare il meglio di se e non avendo più interessi di bandiera sarebbe anche più al riparo da pressioni e indizioni. Anche forse, data l’età (ma purtroppo abbiamo  esempi a contrariis in alto loco) dalla tentazione di escort, viaggi esotici e banchetti piccanti che i rettori possano avere intenzione di offrire.
Più in generale, non sarebbe interessante leggere, invece delle solite boutades, analisi empiricamente fondate sul confronto tra due gruppi generazionali i vecchi ordinari e i giovani ricercatori? Io ho il sospetto (ma mi piacerebbe conoscere opinioni competenti in materia) che complessivamente gli attuali ricercatori abbiano superato un sistema selettivo più impegnativo di quello delle precedenti generazioni: hanno il dottorato, hanno fatto concorsi non facilissimi di ingresso, hanno avuto esperienze all’estero, talvolta già durante gli studi. Molti docenti della mia generazione sono entrati per promozione automatica, non hanno fatto concorsi a livello associate, perché sono entrati con la cosiddetta “stabilizzazione” da incarichi di facoltà (che peraltro erano un vaglio assai più serio delle catastrofiche ondate di idoneità nazionali con lista aperta che sono venute dopo e che oggi si vogliono riproporre, come una grande novità. Ma dove vivono questi novatori?). E’ vero che all’incarico si arrivava con la Libera docenza (una sorta di idoneità a lista aperta che ora viene riproposta sotto diverso nome) ma questo ha funzionato solo fino alla mia classe di coscrizione, cioè per chi ora è già in pensione. Il discorso vale poi a maggior ragione per gran parte degli attuali associati entrati con ope legis varie. Insomma su questa materia si dovrebbe ragionare con assennatezza e senza far ricorso ai triti e frusti miti del “baronato” (agitati, secondo una invalsa pratica italiota, dai veri baroni). Inutile poi ricordare a questi assatanati dell’innovazione (perlopiù finta) che l’università è una istituzione medievale in cui il peso della tradizione dovrebbe essere rilevante, ma purtroppo è stato il corpo accademico stesso a intaccare le tradizioni, spesso rimaste solo a livello mediatico o addirittura ricopiate dai film americani come il patetico tocco con toga che oggi indossano i giovani neolaureati (non saprei neppur dire da quando è cominciato, so solo che una volta durante una seduta di laurea mi sono fatto quattro conti arrivando a concludere che l’amabile fotografo che gestiva le cerimonie era sicuramente il personaggio meglio pagato dell’aula).   E vogliamo anche considerare la possibilità che queste decisioni sull’ impiego del corpo accademico – mantenendo l’equivalenza degli impegni, va da sé) le prenda l’Ateneo, come prescrive la costituzione, e non qualche “mentecatto burocrata” di Pzle Kennedy a Roma, con l‘ausilio degli ideologhi della Premiata ditta?

Purtroppo l’establishment accademico che fa opinione e influenza l’azione del MIUR ha deciso invece che questa riforma s’ha da fare, e l’hallalì è stato dato dal prof. Ernesto Galli della Loggia (lui che non è barone) il giorno 30 Ottobre 2009 sul Corriere. “Non dividiamoci sull’ Università” (Dividiamochi?).  Ovvero “Sosteniamo questa riforma e chi è contro è il solito piantagrane che non vuol fare nulla”. Io personalmente, che sono ormai in pensione e che difficilmente posso essere accusato del non fare, suggerisco al PD, se non vuole perdere ancora consensi nel mondo accademico, di abbandonare questi ideologhi del Ministro Gelmini al loro destino (intanto ora hanno appena subito una sonora trombatura in Parlamento) e di fare invece riferimento traendone ispirazione, all’ uno o l’altro dei non pochi gruppi di base di docenti impegnati veramente e realisticamente nella sincera difesa dell’università. Cito ad esempio i colleghi di www.nuvole,it che non hanno accesso alle colonne dei quotidiani controllati dalla lobby pro-Gelmini, ma che hanno redatto un documento molto serio e che “ha avuto un larghissimo riscontro, sia dal punto di vista delle adesioni, sia dal punto di vista delle risposte sulla stampa e della recezione negli Atenei. Quotidiani come «la Repubblica» (25 e 26 giugno) e «La Stampa» (26  giugno, 1 luglio) hanno dato notizia dell’appello «In difesa dell’Università» consentendo che la discussione cominciasse a sottrarsi, com’era da lungo tempo auspicabile, al solo ambito accademico per approdare a una dimensione pubblica che valorizzi il significato dell’università quale istituzione custode della trasmissione del sapere e della ricerca. Per troppo tempo (e ancora di recente) proprio i quotidiani avevano orientato l’opinione pubblica a vedere soltanto i comportamenti negativi e scorretti che, purtroppo, non sono mancati nella vita accademica negli ultimi decenni e che peraltro noi stessi nell’appello abbiamo severamente censurato. Lo stesso DDL di riforma dell’Università, che sta per essere discusso in Senato, si presenta più come risultato di questa ondata di disprezzo e di ostracismo nei confronti del mondo accademico che non come volontà di rilanciare la funzione dell’Università.” (cito da una mail di mario.dogliani@unito.it, uno dei tre iniziatori del manifesto, con Claudio Ciancio e Federico Vercellone). Questi colleghi hanno di recente scritto una accorata lettera a Napolitano, protestando contro “l’equazione tra necessità di “una” riforma e necessità di “questa” riforma; e identificano quanti si oppongono a “questa” riforma con coloro che hanno approfittato delle storture del sistema attuale, o che si nascondono per non vederle.” Sono totalmente d’accordo, non si poteva dire meglio, capisco che molti amici e amiche stimate che combattono la battaglia parlamentare debbano anche scendere a compromessi ed entrare nel merito minuti di norme aberranti. A tutti quanti dico però: non facciamoci ottundere dai mantra della  “politica del fare”, andiamo a leggere anche manifesti come quello di (www.nuvole.it)  e associamoci alle centinaia di docenti che lo hanno firmato, che non sono, a differenza di molti altri, homines ad servire parati. Ma soprattutto preghiamo in ginocchio i von Clausewitz del PD di usare la testa ed eventualmente di consultarsi con gli esperti prima di produrre alzate di genio come quella del compagno Marco Meloni, responsabile per l’ Università del Pd, che forse meriterebbe di andare in pensione, almeno per un po’, anche  prima di aver raggiunto i 65 anni, per permettere ad altre forze decisamente progressiste di rimediare ai danni che il PD si è inflitto con le proprie mani in materia universitaria in questi anni.

Raito, 01/08/2010 8.52

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