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L’università del dopo Gelmini

1. Un mese fa la Camera sospendeva l’esame del ddl Gelmini sull’università per palese mancanza dei fondi ritenuti necessari dalla stessa maggioranza alla sua approvazione. Il problema, come si usa dire, era (ed è) politico, tanto quanto lo è la scelta strategica dell’allocazione delle risorse pubbliche in un epoca di crisi economica. La protesta dei ricercatori nasceva infatti dai tagli al sistema che ne hanno messo in ginocchio le possibilità di sopravvivenza (senza la, più o meno, volontaria prestazione d’opera loro e del precariato accademico). Ma, come dice un vecchio proverbio cinese, “quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito”: così siamo finiti di nuovo nella finanza creativa del Ministro Tremonti. Ne è uscito un taglio del Fondo di finanziamento ordinario per le università di 276 milioni di euro nel 2011 rispetto all’anno in corso, spacciato dal Governo e dalla stampa che si limita a trascrivere le veline di Palazzo per un incremento di 800 milioni o di addirittura di 1 miliardo di euro (a seconda che si contino i fondi recuperati o stanziati per il diritto allo studio e per la ricerca in convenzione pubblico-privato).

2. La propaganda di regime riteneva così di aver risolto il problema, e già si scommetteva sulla data di approvazione del ddl alla Camera, ma – ormai – è aperta la crisi del Governo Berlusconi. Il Presidente della Repubblica ha chiesto di salvare la legge finanziaria dal suo possibile precipitare (se da una crisi formale si andasse direttamente al voto, il bilancio dello Stato sarebbe destinato all’esercizio provvisorio). Per questo motivo, e solo per questo motivo, le mozioni di s/fiducia al Governo saranno probabilmente discusse tra qualche settimana, al termine dell’esame della finanziaria. Va da sé che, in questo periodo, il Governo non dovrebbe che esercitare l’ordinaria amministrazione e il Parlamento non dovrebbe che adempiere agli obblighi inderogabili, non certo proseguire nell’esame di un ddl proposto da un Governo che forse non ha più la fiducia delle Camere. La mobilitazione di questi giorni, a partire dallo sciopero del 17 novembre, dovrebbe avere anche questo come immediato obiettivo politico.
3. Se – come è legittimo sperare e prevedere – non sarà più Maria Stella Gelmini l’interlocutrice del movimento universitario, tocca accelerare la elaborazione di una piattaforma alternativa, sapendo che Gelmini e Tremonti sono stati solo gli esecutori materiali del tentativo di dismissione dell’università pubblica italiana. Con loro e dietro di loro ci sono forze politiche, economiche e intellettuali che non lasceranno il campo per un voto di sfiducia al Governo Berlusconi. Il 24 ottobre scorso, a Giuseppe De Nicolao che gli contestava i presupposti (eccessiva offerta didattica, troppi professori, spesa fuori controllo) di un suo editoriale gelminiano, dalle colonne del Corriere della sera Francesco Giavazzi replicava esplicitando la ratio della riforma da lui così ardentemente desiderata: «occorre avere il coraggio di ammettere che delle nostre 100 università solo una ventina possono ambire alla categoria di “research universities”. Nelle altre i corsi di biennio e dottorato andrebbero chiusi e quei professori riallocati ai corsi triennali». Ecco cosa c’era sotto la razionalizzazione finanziaria di Gelmini e Tremonti: la trasformazione di gran parte del nostro sistema universitario in una scuola superiore post-liceale e la riduzione alle “eccellenze” di quelle che sono le caratteristiche proprie di una qualsiasi università degna di questo nome, e cioè che ricerca e trasmissione del sapere acquistano qualità camminando insieme, non separate l’una dall’altra. Con il tramonto del gelminismo-tremontismo, riusciremo anche a superare le utopie regressive dei loro corifei?

(stefano anastasia)

Posted in Rassegna Stampa.