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La fine dell’universita’ pubblica

Riportiamo il testo dell’intervento di Alessandro Somma “La fine dell’universita’ pubblica” comparso su Nuova Ferrara del 31 ottobre 2009:

L’anno passato una legge aveva accordato alle universita’ la facolta’ di trasformarsi in fondazioni private, dirette da un consiglio di amministrazione eventualmente controllato da privati, e finanziate dallo Stato nella misura in cui sarebbero state capaci di attirare fondi esterni.
La legge venne avversata da un ampio movimento, che se non altro determino’ la sua mancata applicazione. Non fu tuttavia una vittoria definitiva: la riforma dell’universita’ appena varata dall’esecutivo non dispone la formale privatizzazione degli atenei, ma realizza nei fatti il medesimo risultato.
Intendiamoci: l’universita’ deve rapportarsi con i privati, esattamente come con la societa’ civile e con le componenti politiche ed economiche del
territorio in cui opera. Ma deve poterlo fare ad armi pari, ricevendo stimoli ma anche avendo la liberta’ di valutarli criticamente e la possibilita’ di rifiutarli o di fornirne a sua volta: c’e’ bisogno di innovazioni scientifiche, esattamente come di pensiero critico capace di valutare il loro impatto sulla vita delle persone e della comunita’. Solo a queste condizioni l’universita’ e’ davvero pubblica.
Esattamente il contrario di quanto previsto con la riforma, che stravolge l’attuale assetto, sicuramente perfettibile ma pur sempre fondato sull’idea
che la vita dell’universita’ viene decisa in autonomia e di comune accordo dalle sue componenti: studenti, personale docente e tecnico amministrativo.
Finora le decisioni più importanti dipendevano in massima parte dal Senato accademico. Se la riforma verra’ approvata quest’ultimo potra’ solo
formulare proposte e pareri, mentre le funzioni di indirizzo e di iniziativa spetteranno direttamente al rettore e al consiglio di amministrazione. E in quest’ultimo dovranno sedere almeno il quaranta per cento di membri non provenienti dall’universita’, quindi eventualmente di privati, competenti fra l’altro ad attivare o sospendere corsi e sedi.
Altre innovazioni sono solo apparentemente ispirate da buone intenzioni.
Si parla di valutazione della didattica e della ricerca, ma si tratta di valutazione operata dal ministero secondo criteri economici, ben distante da quella, pure problematica, realizzata attraverso organismi indipendenti. Si valorizzano i giudizi sulla didattica formulati dagli studenti, tuttavia secondo un modello tipicamente consumeristico, a cui e’ estranea l’idea di una partecipata definizione delle linee didattiche. Infine si prevede l’emanazione di un codice etico, che nel clima attuale si occupera’ delle parentele tra docenti e non anche dei vincoli professionali, difficilmente tracciabili ma più frequenti e non meno dannosi dei vincoli famigliari.
A queste condizioni non stupisce l’entusiastica adesione dei principali miracolati dalla riforma: i privati e i rettori. Per Confindustria essa rendera’ le universita’ italiane competitive nel mondo. La Conferenza dei rettori delle universita’ italiane (Crui), consorzio di rettori ma non di atenei, ha subito parlato di occasione fondamentale e irripetibile, da condividere nella sostanza: si auspica semplicemente un ampio dibattito parlamentare, ben sapendo che produrra’ solo ritocchi a uno schema definito e magari blindato da un voto di fiducia. E si fa capire che il giudizio positivo definitivo dipendera’ dai soldi messi a disposizione per finanziare la riforma: quindi che i rettori sono in vendita.
Neppure fara’ stupore una probabile adesione del Piddi, che pochi mesi or sono ha presentato un suo progetto di riforma. Anche li’ si favorisce la
concentrazione del potere accademico nelle mani del rettore e del consiglio di amministrazione, con un’ampia rappresentanza in quest’ultimo di soggetti esterni all’universita’.”

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