di Tiziana Terranova, da ilmanifesto.it
Le immagini degli studenti che irrompono nella sede del partito conservatore hanno fatto il giro del mondo. E come spesso accade la discussione si è concentrata sulla presenza di provocatori o sulla legittimità o meno di azioni dirette talvolta violente. Poco o nulla è stato detto che le proposte di riforma del sistema di finanziamento pubblico alle università inglese rischia di cancellare corsi di laurea e di impoverire l’offerta formativa. In Inghilterra, come in Italia, la cultura e la formazione devono essere funzionali allo sviluppo economico, altrimenti sono da cancellare perché superflue. E oltre Manica come in Italia, la strada scelta dai governi dei due paesi è la stessa: una progressiva privatizzazione della formazione.
La strada imboccata risolutamente dal governo conservatore e liberale inglese ha avuto però come apripista le politiche di Tony Blair e dei laburisti. Se negli anni Novanta la retorica sull’industria creativa ha sempre messo l’accento sul fatto che la cultura doveva diventare una risorsa economica, innovando profondamente i modelli di organizzazione del lavoro e proiettare l’Inghilterra nel futuro, dal 2008 in poi i laburisti hanno definito le linee di una riforma dei finanziamenti pubblici all’università che prevedeva aumenti delle tasse universitarie e una loro forte riduzione.
È attorno a questi temi che si è sviluppata l’intervista a Jussi Parikka, docente di origine finlandese e attento ricercatore sulle tendenze della «cultura digitale» e dei nuovi «social media». L’incontro è avvenuto a Londra, proprio quando la mobilitazione degli studenti stava organizzando la manifestazione che ha portato all’assalto della sede del partito conservatore.
Da alcuni anni, in Italia assistiamo a forti tagli dei finanziamenti statali alla scuola e all’università pubblica. Il risultato è una deliberata svalutazione ed impoverimento della formazione e della ricerca pubblica – con licenziamenti, blocco delle assunzioni, taglio dei corsi, classi sempre più affollate, meno ore di didattica e così via. Anche il settore della cultura più in generale (teatri, musei, musica, editoria) ha subito drastici tagli dei finanziamenti pubblici. Un fenomeno tuttavia non solo italiano, ma elemento costitutivo della ristrutturazione economico-politica che ha seguito la crisi finanziaria del 2008. Nel Regno Unito, la «politica del rigore fiscale» ha determinato una riduzione drastica, talvolta del 100 per cento, alla didattica dei corsi di laurea nelle arti, nelle scienze umane e sociali. Come ti spieghi questa riduzione massiccia dei finanziamenti pubblici alla cultura e alla formazione sociologica, artistica e umanistica, specialmente dopo anni in cui la cosiddetta «economia creativa» è stata celebrata come il motore dello sviluppo economico?
È stato uno shock, nel senso identificato da Naomi Klein come parte della dottrina del «capitalismo dei disastri». I recenti eventi che riguardano l’università inglese, ma anche altre settori del servizio pubblico, sono così terrificanti che la reazione ha smontato l’effetto sorpresa dell’annuncio da parte del governo. Va in primo luogo ricordato che la crisi del 2008 non ha aperto la strada a un’era keynesiana di investimenti pubblici, ma ad una ulteriore privatizzazione di beni pubblici fondamentali. Per quello che riguarda le università inglesi, i tagli erano già previsti dal precedente governo laburista. Prima ancora che le elezioni portassero al governo i Conservatori e i Liberali, la commissione Browne, il cui mandato è stato quello di formulare le linee politiche della riforma dei finanziamenti all’università nel Regno Unito, era stata promossa dai laburisti. Ed erano stati i laburisti, già con Peter Mandelsson, che avevano trasferito le università al «Department of Business, Innovation and Skills» e che avevano ipotizzato l’aumento delle tasse universitarie. Il nuovo governo non ha fatto altro che riprendere l’ordine del discorso laburista, annunciando prima una riduzione dei finanziamenti del 20 per cento e poi del 40 per cento. Allo stesso tempo ha stabilito che solo alcune discipline del sapere erano degne del finanziamento pubblico: quelle scientifiche, tecnologiche, l’ingegneria e la matematica, lasciando fuori più o meno tutti i corsi di laurea in discipline umanistiche, sociali e artistiche.
TONY BLAIR, L’ISPIRATORE
Nell’arco di alcuni mesi, l’«economia culturale» e le industrie creative non hanno avuto più nessun ruolo nella cosiddetta «cool britannia», creativa e postfordista. Era un modo di concepire lo sviluppo economico che ha avuto, negli anni Novanta, il suo massimo ispiratore in Tony Blair. Per alcuni, questa idea aveva protetto gli studi culturali e le arti giustificando in qualche modo la loro esistenza. I significati, le rappresentazioni, le pratiche artistiche potevano essere integrati in questo nuovo e benevolo «capitalismo creativo» inglese, nel quale la cultura – gli stili di vita, le abitudini, le arti, le creazioni digitali dalla musica all’editoria – avrebbero dovuto esserne il cuore pulsante. Invece, durante gli ultimi due anni, tutto il discorso sulle industrie creative è stato sostituito pian piano con quello dell’«economia digitale». Sembrerebbe un cambiamento apparentemente minimo dalle industrie creative a una versione più orientata verso l’informatica. Il «Digital Economy Bill» e tutte le iniziative governative successive così come la discussione pubblica si sono invece concentrati su progetti come l’infrastruttura digitale, che dovrebbero garantire la banda larga ad alta velocità. Si è cioè privilegiata la tecnologia: tecnologia nel senso di infrastruttura e di soluzioni scientifiche in grado di fornire flussi di reddito più affidabili rispetto al modello vago di creatività dell’industria dei servizi. E così, nonostante le statistiche che testimoniano l’enorme contributo delle arti e delle scienze umane alla creazione di ricchezza, la cultura è diventata l’ancella superflua e ridondante dell’economia digitale.
Il passaggio dall’economia creativa a quella digitale ha significato che solo la scienza e l’ingegneria possano essere meritevoli del sostegno pubblico in quanto produttrici di valore economico. Da ricercatore nel campo dei nuovi media, come vedi questo cambiamento? E che ne pensi della posizione di Jaron Lanier, secondo il quale i nuovi media quali Internet e in particolare il web 2.0 sarebbero responsabili della svalutazione del lavoro cognitivo?
Parto dal presupposto che le «industrie creative» producono anch’esse ricchezza. Uno sguardo veloce alle statistiche economiche del «National Archive» testimonia il fatto che questo settore è cresciuto approssimativamente del 5% tra il 1997 e il 2007, molto più di quanto non sia cresciuta l’insieme dell’economia. Allo stesso tempo settori quali il software, i videogiochi e l’editoria elettronica sono cresciuti persino del 9%!
Per continuare con le statistiche, un recente rapporto sulle università del Regno Unito fornisce dati simili: le industrie creative e quelle del software, dei videogiochi e dell’editoria elettronica producono enormi quantità di valore economico, con ricavi di 17 miliardi di sterline solo nel 2003/2004: ricavi maggiori di tutto il settore farmaceutico in questo paese. C’è inoltre da dire che per ogni milione di sterline prodotte dalle università, quello stesso rapporto dice che ci sono altri 1.52 milioni di sterline in settori collegati, e in termini di occupazione abbiamo una storia molto simile con 100 lavoratori a tempo pieno nelle università che sostengono l’esistenza di altri 100 lavoratori.
Quindi è chiaro che si tratta di qualcos’altro rispetto ad una pura razionalità economica e si è veramente tentati dal leggere tutto ciò in termini di un cambiamento importante della percezione e riorganizzazione del lavoro. Questa si chiamava ideologia, o perlomeno parte di un incanalamento meticoloso e molto sottile di desideri, la relazione con il tempo, con la produzione, la creatività e la partecipazione. La flessibilità è stata imposta come lo stato di normalità per il «lavoratore creativo», inclusi i docenti, ed è su questo modello che formiamo i nostri studenti dal primo giorno; sopporta i cambiamenti, vivi flessibilmente, e non pretendere quell’orizzonte stabile che chiamavamo futuro.
L’ETICA HACKER DEL LAVORO
I modelli di lavoro che sostenevano tanta economia creativa e Internet erano in verità basati sull’investimento psichico. Entusiasmo, volontariato, dare una mano – per molto tempo questa è stata la base del lavoro universitario. Eppure ciò che fino a ieri, negli anni Novanta, era celebrato come l’«etica hacker del lavoro» si è dimostrata un completo fallimento nel contrastare l’appropriazione privato di valore del lavoro cosiddetto creativo e della cooperazione sociale a cui accennavo.
I modelli di lavoro della cultura digitale non sono così facilmente riconducibile a una logica puramente economica. Quello che i pessimisti culturali vedono come uno sviluppo pericoloso causato da culture partecipative è parte di una più ampia ascesa di reti cooperative, di una nuova era di produttori e consumatori attivi. Caratteristiche che non possiamo liquidare come cattive, dopo che per anni abbiamo assistito a una grande concentrazione capitalista dei media.
Per anni, forti delle riflessioni di Theodore W. Adorno sull’industria culturale, abbiamo criticato la manipolazione delle coscienze da parte dei media. E tuttavia rispetto al «grande caos» delle reti telematiche e della cultura digitale non possiamo certo tornare a forme elitarie di produzione e di accesso alla cultura. Per alcuni studiosi, come forse per Jaron Lanier, criticano l’ascesa di una banale cultura di dilettanti. Ma sono propenso a credere che la critica elitaria alla cultura digitale cerchi di tornare al centro della scena pubblica forte di una cornice politica e economica neoliberale. In Gran Bretagna, ad esempio, le vecchie università d’elite si stanno trasformando in corporation globali della formazione, facendo leva sui vecchi legami coloniali dell’Inghilterra, proponendo forme neo-coloniale di offerta formativa.
Le industrie creative sono riconosciute simbolicamente importanti, ma devono essere autosufficienti, cioè devono basarsi sull’investimento (incluso l’investimento psichico di energia ed entusiasmo) piuttosto che essere sostenute da finanziamenti pubblici. La retorica pubblica dice che i corsi di laurea in scienza ed ingegneria si meritano questo sostegno, perché sono molto costosi in termini di attrezzature da laboratorio, macchinari. Allo stesso tempo, è dominante la visione in base alla quelle il sostentamento dei docenti, dei ricercatori impegnati nelle facoltà umanistiche si arrangino, mentre quelli che lavorano nelle industrie creative si autorganizzino. In fondo, gli uomini e le donne costano molto alle corporation e se lo stato riesce a trovare un modello dove fanno lo stesso lavoro per metà del prezzo, ha risolto un grande problema per quelle stesse corporation.