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Roma 14/12. Dentro e fuori la “zona rossa”

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A Roma il 14 Dicembre il potere ha calcolato la distanza fisica che lo separa da chi abita il suolo di questa Nazione al collasso: blindate le vie d’accesso ai palazzi del potere, una circolare della questura esorta i parlamentari ad andarsi a rinchiudere a Montecitorio sin dalle prime ore del mattino per evitare il contatto con i manifestanti, polizia e finanza sono massicciamente poste a protezione di una zona rossa.

Mentre la zona rossa racchiude poche centinaia di persone che voteranno la Fiducia al Governo Berlusconi, fuori c’è il resto d’Italia. Ci sono le donne e gli uomini de L’Aquila, di Terzigno, di Chiaiano e dei movimenti per i beni comuni, ci sono insegnanti, ricercatori, precari, migranti e metalmeccanici. E ci sono gli studenti e le studentesse in lotta da due anni contro una riforma della scuola e dell’università che porrà fine alla possibilità di accedere alla cultura per moltissimi, recinterà la ricerca e marginalizzerà le vite di ciascuno.
Mentre nei palazzi blindati il potere politico e istituzionale decide di non staccarsi la spina, fuori si parla di un presente deprivato della libertà di scelta: della scelta di poter ricostruire la propria casa terremotata, della possibilità di accesso alle risorse della terra, della libertà di vivere in un territorio non avvelenato. E si parla del futuro che ci aspetta: senza welfare, senza mobilità sociale, senza possibilità di accedere alla cultura e senza prospettive, se non quelle del ricatto e della povertà.

Quella rimasta fuori dalla zona rossa è un’Italia che non accetta più compromessi e che non conosce mediazioni di alcun tipo, che non tollera recinzioni e interdizioni: è un’Italia che ha deciso di riprendersi la parola. Lo fa adesso e articola un discorso di protesta determinato e a tutta voce.

Le camionette, a difesa dei luoghi dove si riproduce lo status quo, sono prese d’assalto da diversi gruppi di manifestanti: le prime poste a protezione della via d’accesso a Palazzo Grazioli sono oggetto di un fitto lancio di sacchi di “munnezza”, recapitati direttamente da Napoli al mittente. Ed è questo il messaggio che si vuole dare. Vi restituiamo ciò che è vostro, perché noi non lo abbiamo mai chiesto e non lo tolleriamo: una violenza istituzionale di decisioni prese dall’alto e a discapito delle esigenze dei territori, menzogne di un potere politico complice delle speculazioni sulle nostre vite e sulle nostre morti, violenza strutturale di un potere confindustriale che derubrica il presente di milioni di lavoratori e lavoratrici alla voce “svendita” e destina il futuro di tutti al precariato.

Si lanciano uova, frutta, pietre, bastoni e in un silenzio solenne quanto irreale le sedi delle banche e delle assicurazioni vengono assalite da cori: “Ladri Ladri!” e duramente colpite. Chi non è coinvolto direttamente nelle azioni appoggia con tutto il fiato che ha in corpo. Alla notizia della Fiducia ottenuta al Senato e alla Camera per una manciata di ministri “convinti” in un lasso di tempo che va dalla notte precedente a mesi prima (alcuni di FLI e dell’UDC, dell’IDV e del PD – chissà se la Finocchiaro parlando di infiltrati non si riferisse ai transfughi del proprio partito), la volontà di non fermarsi davanti alla zona rossa diventa una necessità, una parola d’ordine del riscatto di una generazione che si sente profondamente presa in giro dai ridicoli copioni della governance.

A Piazza del Popolo il corteo non si arresta, vuole arrivare ai palazzi del potere e lo scontro con i tutori dell’ordine in Via del Corso e Via del Babuino sarà durissimo.
Le cariche della polizia, sotto un fitto lancio di oggetti, sono violente e coinvolgono la piazza impaurita anche con i mezzi blindati, come non si vedeva da Genova 2001. A rispondere tra i lacrimogeni, da sotto i caschi e i cappucci, da dietro le sciarpe e gli scudi-libri di una cultura utilizzata per l’attacco e la difesa, sono centinaia di giovani e quando un autoblindo della finanza viene fatto arretrare e dato alle fiamme un boato si solleva dalla piazza. È un boato di rabbia e rivendicazione, di autodifesa, di autodeterminazione.

È questa la violenza usata dalle centinaia di ragazzi e ragazze che erano martedì in piazza a Roma. Una violenza che è stata messa loro nelle mani direttamente dal sistema e di ritorno al sistema che la produce quotidianamente sulle loro vite.
Il 14 dicembre c’è stata semplicemente l’epifania di una presa di coscienza di una intera generazione precaria che ha capito che l’unico terreno su cui potersi giocare una rivendicazione è quello stesso terreno di esercizio del potere biopolitico: quello dei corpi, degli spazi, dell’esistenza. Se è l’intero proprio bios – inteso come lo spazio-tempo complessivo dell’esistenza, uno spazio-tempo di vita che esonda dai margini di un contratto e di un orario di lavoro – normato e messo a produzione, è con l’intero bios che i precari possono esercitare una rivendicazione di dignità, futuro, felicità. Priva di qualsiasi tipo di potere contrattuale, questa generazione alza la testa dai marciapiedi su cui l’aveva chinata dopo anni di violazione dei propri tempi e spazi di vita, di mortificazione delle aspettative, di frustrazione dei propri corpi e del proprio sapere e quei corpi con tutta la loro forza e la loro rabbia li porta in piazza, come sui tetti, sui binari, su una gru.
Un tentativo di imporsi, di proporre presenza vitale, che da dentro i palazzi del potere non si può più ignorare, un tentativo di riportare alla piazza (del popolo) le decisioni che la riguardano.

Barbara Bartocci e Giacomo Ficarelli

Posted in Rassegna Stampa.