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“Pratiche di una generazione in movimento” – Dossier Università – micropolis

di Alessandra Caraffa e Giacomo Ficarelli

da micropolis

Dopo la partecipazione alla manifestazione indetta dalla Fiom il 16 ottobre a Roma e l’occupazione dell’aula I/2 del dipartimento di Matematica e Fisica, il movimento perugino scende in piazza il 17 novembre con un corteo di circa cinquecento persone. Il 24 novembre studenti, precari e ricercatori salgono sul tetto della mensa centrale di via Pascoli. Il giorno seguente la mensa è luogo di un partecipato presidio; le duecento persone che si trovano lì decidono unanimemente di trasformare il presidio statico in un blocco del traffico. È lo stesso giorno in cui – dopo l’assemblea alla facoltà di Lettere – si decide per l’immediata occupazione dell’aula magna di palazzo Manzoni. Questa sede sarà la base della mobilitazione, per tutta la settimana: da qui partono i cortei spontanei che attraversano la città; qui vengono organizzati i numerosi seminari di autoformazione e l’imponente manifestazione del 30 novembre, che ha visto il suo apice nell’occupazione dei binari della stazione Fontivegge.

Sulla categoria di studente

L’approvazione del Ddl Gelmini, accompagnata a Perugia dal drastico taglio delle borse di studio è soltanto la causa occasionale della mareggiata che attraversa il Paese. Le cause profonde che portano in piazza centinaia di migliaia di persone vanno ricercate in processi più lunghi e complessi, che ci consentono altresì di riconoscere i protagonisti del movimento reale. Il motore della mobilitazione è la volontà di democrazia radicale sentita ed espressa da un nutrito numero di persone, che ha deciso di non essere parte accomodante di un’università ridotta a cadavere e su cui non si ha alcun controllo, né soggetto di ricatti economici riguardanti borse di studio o tasse. Questo sentire diffuso si è inserito facilmente nella cornice del lavoro svolto dai soggetti che hanno vissuto l’esperienza dell’Onda nel 2008.

Negli ultimi due anni c’è stata una ricca e articolata riflessione, fatta anche di assemblee, seminari e campagne di informazione/divulgazione, su cosa significhi vivere dentro l’università e su quali siano gli elementi che legano questa particolare forma di vita ai processi della contemporaneità, quali la privatizzazione del pubblico, l’aziendalizzazione, la dimissione del welfare state, la messa a produzione dell’intelligenza.

Uno dei punti cardine della riflessione sta nel rifiuto dello “studentismo”, quel modo di categorizzare lo studente che lo definisce, in pratica, una figura ancora esterna al processo produttivo e dunque alla realtà sociale. Ebbene, la categoria di studente è assurda, inventata, frutto di un’astrazione intellettuale: uno studente è spesso un borsista, quindi qualcuno che esperisce una fortissima precarietà esistenziale e progettuale; è qualcuno che non sa se – quando saremo in edicola – avrà ancora garantiti vitto e alloggio oppure dovrà restituire dei soldi all’Agenzia che dovrebbe garantire il diritto allo studio. È uno studente la ragazza che lavora, sottopagata o in nero, senza forza contrattuale, per pagarsi gli studi; studentessa e allo stesso tempo produttrice di ricchezza per una città che la sfrutta come affittuaria di una stanza in centro. Così com’è uno studente il migrante che, perdendo la possibilità di accedere alla borsa di studio, perderà il permesso di soggiorno e sarà costretto a tornare al suo Paese d’origine. Gli studenti sono consumatori; gli studenti non soltanto stanno a casa a studiare, come vorrebbe qualcuno; gli studenti – per esempio – vengono sfruttati nei grandi eventi che la città offre come vetrina di sé, eventi che tutti conosciamo e che guadagnano proprio sul lavoro non contrattualizzato.

Il movimento del 2010

Conoscendosi, semplicemente, molte delle persone che hanno preso parte alla mobilitazione hanno scoperto che esiste un orizzonte comune a cui tutte le loro esistenze si riferiscono: quello della precarietà – che non va più intesa in senso esclusivamente economico, ma come precarietà tout court, progettuale, esistenziale. Pensiamo alla violenza del ricatto di Pomigliano, la stessa con cui le politiche di austerità nazionali ed europee si abbattono sui precari, sulle piccole imprese e sul “popolo delle partite Iva”. Esiste un’incredibile pluralità di contesti in cui si subiscono quotidianamente ricatto, sfruttamento, violenza. Contesti che non vogliono più essere circoscritti.

La costituzione di un fronte unitario, non più diviso dalla vertenzialità delle singole cause, non è certo cosa semplice: richiede la composizione di soggetti differenti, la messa in comune di istanze considerate finora identitarie; e tuttavia la scomposizione e ricomposizione del tessuto sociale appare come l’unica alternativa percorribile a dispetto delle politiche dei governi nazionali e della Banca Centrale Europea. Si tratterebbe di ricomporre diversi soggetti che non si definiscano solo per reddito o posizione (dunque secondo le categorie tradizionali), ma anche in un conflitto per la conquista di spazi che eccedano la mentalità del profitto, conflitto tra stasi e movimento, tra mantenimento dei privilegi e ricerca di diritti per tutti, tra gerarchizzazione capillare e mobilità sociale.

Contro i molti che sono ancora arroccati nella difesa dell’esistente, c’è una parte del movimento che pensa che ci sia un altro futuro da scrivere, non austero né precario.

Con la coscienza piena del fatto che una lotta del genere non trova possibili alleati tra le fila della sinistra istituzionale, che piuttosto si incaricherà – con ogni probabilità – di gestire la transizione dell’università dal pre-Gelmini al post nella maniera più indolore possibile (il pensiero va al diessino Berlinguer, sponsor accanito del processo di Bologna).

E se nel 2008 il movimento cercava un’astratta unità che arrivasse dallo studente borsista al rettore, nell’ambito dunque circoscritto del mondo universitario, oggi la gran parte dei soggetti in mobilitazione rifiuta l’idea istituzionale corrente di università, non combatte soltanto la prospettiva Gelmini; oggi si rifiuta quel significato del “pubblico” che prevede contribuzione (pubblica) gestita e messa a profitto da istituzioni miste pubblico-private. Il movimento del 2010 vuole costruire a partire da sé – ma con tutti i soggetti che vogliano collaborare – nuovi luoghi di circolazione del sapere, dunque nuove definizioni per l’università.

L’università come campo del conflitto

In questo contesto l’occupazione della facoltà di Lettere a Perugia ha indicato, con una pratica d’azione molto concreta, l’università come campo immediato di conflitto.

Il fatto che sia proprio l’università a muoversi per prima (e senza interruzioni) non è casuale, né è frutto dell’odioso cliché – tornato di gran moda – secondo cui gli studenti si sono sempre agitati e sempre lo faranno. La mobilitazione parte da qui perché qui non ci sono privilegi già acquisiti da perdere: non ci sono stipendi, né anni di anzianità, né la prospettiva di una pensione certa; piuttosto si vive della triste certezza che le politiche europee degli anni zero non concedono alcuna prospettiva che non rientri nell’orizzonte, tanto concettuale quanto reale, del precariato. La pratica della riappropriazione degli spazi, dei tempi, della vita e della cultura che si produce all’interno degli atenei tramite i seminari, i laboratori, le lezioni tenute da ricercatrici, precari o dagli stessi studenti diventa immediatamente conflitto. Diventa conflitto tra un sapere parcellizzato in corsi liofilizzati della durata di due mesi e la voglia di conoscere e vivere il proprio tempo secondo i propri desideri, e di ricomprendere il sapere come elemento essenziale del mondo della vita di ognuno. Diventa conflitto tra un’università i cui corsi sono pensati per creare dei prodotti sufficientemente maturi da essere immessi nel circuito della produzione (lo stesso che li finanzia) e un’università finalmente viva, perché gestita da chi la riempie, la muove e la arricchisce tutti i giorni. Il conflitto profondo è tra la libertà d’accesso a uno dei luoghi deputati alla produzione della cultura e l’arroganza di chi vuole restringerne l’utilizzo servendosi di una invadente capillarizzazione delle istituzioni gerarchiche ed autoritarie. Si tratta, in definitiva, di una lotta tra la libertà delle persone e del sapere e l’arroganza di privati e fondazioni, di Confindustria e della Conferenza dei rettori. Si tratta di combattere l’idea di un’università che esaurisce la propria funzione nel creare “risorse umane” da lasciare capitalizzare a terzi, per rivendicarne il vero scopo, il vero utile: quello di creare delle libere ricchezze, a disposizione di tutti. Ma gli studenti non sono soli. Dopo gli scontri del 14 dicembre possiamo dire, con Franco Berardi, che “l’insurrezione europea […] è il levarsi in piedi di una generazione, è la dichiarazione di autonomia dell’intelligenza collettiva dalla putredine di un sistema corrotto, violento, ignorante e moribondo. È il cambio di clima culturale che annuncia un decennio di conflitto e di costruzione di un mondo libero dallo sfruttamento”.

Posted in Rassegna Stampa.