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Per una nuova Europa: lotte universitarie contro l’austerità

Per una nuova Europa: lotte universitarie contro l’austerità

per informazioni: INFO@EDUFACTORY.ORG

Parigi, 11-13 Febbraio 2011

Da Londra a Vienna, da Roma a Parigi, da Atene a Madrid, una nuova Europa sta emergendo. Studenti e precari, cittadini e migranti, le moltitudini si battono in prima linea dentro la crisi, per la loro vita e per il futuro. Lottano per riappropriarsi dei loro diritti e la ricchezza condivisa che creano ogni giorno. Si ribellano alle misure di austerità che sfruttano il nostro presente e ci derubano del nostro futuro. Si rivoltano contro l’arroganza del potere.

Seguendo il percorso costruito negli ultimi anni, i meeting del ‘”Bologna Burns” a Vienna, Londra, Parigi e Bologna, “Commoniversity” a Barcellona, Edu-Factory e l’Autonomous Education Network si sono uniti nella richiesta di un incontro europeo per tutte le realtà  interne a questa lotta comune, al fine di creare una potente rete europea dei conflitti nell’università e oltre. Uno spazio transnazionale dove discutere e sviluppare la nostra capacità politica collettiva per contrastare gli attacchi contro l’università e il welfare, per costruire un nuovo futuro per tutti.

Attraverso conferenze e workshop, incontri e assemblee, proponiamo una discussione intorno ai temi chiave dell’università,  come la produzione autonoma di conoscenza, l’autoformazione, le lotte in rete, l’organizzazione politica transnazionale e il comune.

Per noi il tempo è ormai maturo: bisogna sollevarsi ora, insieme, collettivamente e singolarmente, per reclamare la nostra vita e costruire una nuova Europa, basata sui diritti e la libertà. È giunto il momento di riprendere ciò che è nostro: il comune.

PARIGI, 11 – 13 FEBBRAIO 2001

PER MAGGIORI INFORMAZIONI: INFO@EDUFACTORY.ORG

il testo in inglese, francese, tedesco, polacco e spagnolo

Continued…

Posted in General.


Roma 14/12. Dentro e fuori la “zona rossa”

roma14dic.jpgda micropolis- segnocritico

A Roma il 14 Dicembre il potere ha calcolato la distanza fisica che lo separa da chi abita il suolo di questa Nazione al collasso: blindate le vie d’accesso ai palazzi del potere, una circolare della questura esorta i parlamentari ad andarsi a rinchiudere a Montecitorio sin dalle prime ore del mattino per evitare il contatto con i manifestanti, polizia e finanza sono massicciamente poste a protezione di una zona rossa.

Mentre la zona rossa racchiude poche centinaia di persone che voteranno la Fiducia al Governo Berlusconi, fuori c’è il resto d’Italia. Ci sono le donne e gli uomini de L’Aquila, di Terzigno, di Chiaiano e dei movimenti per i beni comuni, ci sono insegnanti, ricercatori, precari, migranti e metalmeccanici. E ci sono gli studenti e le studentesse in lotta da due anni contro una riforma della scuola e dell’università che porrà fine alla possibilità di accedere alla cultura per moltissimi, recinterà la ricerca e marginalizzerà le vite di ciascuno.
Mentre nei palazzi blindati il potere politico e istituzionale decide di non staccarsi la spina, fuori si parla di un presente deprivato della libertà di scelta: della scelta di poter ricostruire la propria casa terremotata, della possibilità di accesso alle risorse della terra, della libertà di vivere in un territorio non avvelenato. E si parla del futuro che ci aspetta: senza welfare, senza mobilità sociale, senza possibilità di accedere alla cultura e senza prospettive, se non quelle del ricatto e della povertà.

Quella rimasta fuori dalla zona rossa è un’Italia che non accetta più compromessi e che non conosce mediazioni di alcun tipo, che non tollera recinzioni e interdizioni: è un’Italia che ha deciso di riprendersi la parola. Lo fa adesso e articola un discorso di protesta determinato e a tutta voce.

Le camionette, a difesa dei luoghi dove si riproduce lo status quo, sono prese d’assalto da diversi gruppi di manifestanti: le prime poste a protezione della via d’accesso a Palazzo Grazioli sono oggetto di un fitto lancio di sacchi di “munnezza”, recapitati direttamente da Napoli al mittente. Ed è questo il messaggio che si vuole dare. Vi restituiamo ciò che è vostro, perché noi non lo abbiamo mai chiesto e non lo tolleriamo: una violenza istituzionale di decisioni prese dall’alto e a discapito delle esigenze dei territori, menzogne di un potere politico complice delle speculazioni sulle nostre vite e sulle nostre morti, violenza strutturale di un potere confindustriale che derubrica il presente di milioni di lavoratori e lavoratrici alla voce “svendita” e destina il futuro di tutti al precariato.

Si lanciano uova, frutta, pietre, bastoni e in un silenzio solenne quanto irreale le sedi delle banche e delle assicurazioni vengono assalite da cori: “Ladri Ladri!” e duramente colpite. Chi non è coinvolto direttamente nelle azioni appoggia con tutto il fiato che ha in corpo. Alla notizia della Fiducia ottenuta al Senato e alla Camera per una manciata di ministri “convinti” in un lasso di tempo che va dalla notte precedente a mesi prima (alcuni di FLI e dell’UDC, dell’IDV e del PD – chissà se la Finocchiaro parlando di infiltrati non si riferisse ai transfughi del proprio partito), la volontà di non fermarsi davanti alla zona rossa diventa una necessità, una parola d’ordine del riscatto di una generazione che si sente profondamente presa in giro dai ridicoli copioni della governance.

A Piazza del Popolo il corteo non si arresta, vuole arrivare ai palazzi del potere e lo scontro con i tutori dell’ordine in Via del Corso e Via del Babuino sarà durissimo.
Le cariche della polizia, sotto un fitto lancio di oggetti, sono violente e coinvolgono la piazza impaurita anche con i mezzi blindati, come non si vedeva da Genova 2001. A rispondere tra i lacrimogeni, da sotto i caschi e i cappucci, da dietro le sciarpe e gli scudi-libri di una cultura utilizzata per l’attacco e la difesa, sono centinaia di giovani e quando un autoblindo della finanza viene fatto arretrare e dato alle fiamme un boato si solleva dalla piazza. È un boato di rabbia e rivendicazione, di autodifesa, di autodeterminazione.

È questa la violenza usata dalle centinaia di ragazzi e ragazze che erano martedì in piazza a Roma. Una violenza che è stata messa loro nelle mani direttamente dal sistema e di ritorno al sistema che la produce quotidianamente sulle loro vite.
Il 14 dicembre c’è stata semplicemente l’epifania di una presa di coscienza di una intera generazione precaria che ha capito che l’unico terreno su cui potersi giocare una rivendicazione è quello stesso terreno di esercizio del potere biopolitico: quello dei corpi, degli spazi, dell’esistenza. Se è l’intero proprio bios – inteso come lo spazio-tempo complessivo dell’esistenza, uno spazio-tempo di vita che esonda dai margini di un contratto e di un orario di lavoro – normato e messo a produzione, è con l’intero bios che i precari possono esercitare una rivendicazione di dignità, futuro, felicità. Priva di qualsiasi tipo di potere contrattuale, questa generazione alza la testa dai marciapiedi su cui l’aveva chinata dopo anni di violazione dei propri tempi e spazi di vita, di mortificazione delle aspettative, di frustrazione dei propri corpi e del proprio sapere e quei corpi con tutta la loro forza e la loro rabbia li porta in piazza, come sui tetti, sui binari, su una gru.
Un tentativo di imporsi, di proporre presenza vitale, che da dentro i palazzi del potere non si può più ignorare, un tentativo di riportare alla piazza (del popolo) le decisioni che la riguardano.

Barbara Bartocci e Giacomo Ficarelli

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“Pratiche di una generazione in movimento” – Dossier Università – micropolis

di Alessandra Caraffa e Giacomo Ficarelli

da micropolis

Dopo la partecipazione alla manifestazione indetta dalla Fiom il 16 ottobre a Roma e l’occupazione dell’aula I/2 del dipartimento di Matematica e Fisica, il movimento perugino scende in piazza il 17 novembre con un corteo di circa cinquecento persone. Il 24 novembre studenti, precari e ricercatori salgono sul tetto della mensa centrale di via Pascoli. Il giorno seguente la mensa è luogo di un partecipato presidio; le duecento persone che si trovano lì decidono unanimemente di trasformare il presidio statico in un blocco del traffico. È lo stesso giorno in cui – dopo l’assemblea alla facoltà di Lettere – si decide per l’immediata occupazione dell’aula magna di palazzo Manzoni. Questa sede sarà la base della mobilitazione, per tutta la settimana: da qui partono i cortei spontanei che attraversano la città; qui vengono organizzati i numerosi seminari di autoformazione e l’imponente manifestazione del 30 novembre, che ha visto il suo apice nell’occupazione dei binari della stazione Fontivegge.

Sulla categoria di studente

L’approvazione del Ddl Gelmini, accompagnata a Perugia dal drastico taglio delle borse di studio è soltanto la causa occasionale della mareggiata che attraversa il Paese. Le cause profonde che portano in piazza centinaia di migliaia di persone vanno ricercate in processi più lunghi e complessi, che ci consentono altresì di riconoscere i protagonisti del movimento reale. Il motore della mobilitazione è la volontà di democrazia radicale sentita ed espressa da un nutrito numero di persone, che ha deciso di non essere parte accomodante di un’università ridotta a cadavere e su cui non si ha alcun controllo, né soggetto di ricatti economici riguardanti borse di studio o tasse. Questo sentire diffuso si è inserito facilmente nella cornice del lavoro svolto dai soggetti che hanno vissuto l’esperienza dell’Onda nel 2008.

Negli ultimi due anni c’è stata una ricca e articolata riflessione, fatta anche di assemblee, seminari e campagne di informazione/divulgazione, su cosa significhi vivere dentro l’università e su quali siano gli elementi che legano questa particolare forma di vita ai processi della contemporaneità, quali la privatizzazione del pubblico, l’aziendalizzazione, la dimissione del welfare state, la messa a produzione dell’intelligenza.

Uno dei punti cardine della riflessione sta nel rifiuto dello “studentismo”, quel modo di categorizzare lo studente che lo definisce, in pratica, una figura ancora esterna al processo produttivo e dunque alla realtà sociale. Ebbene, la categoria di studente è assurda, inventata, frutto di un’astrazione intellettuale: uno studente è spesso un borsista, quindi qualcuno che esperisce una fortissima precarietà esistenziale e progettuale; è qualcuno che non sa se – quando saremo in edicola – avrà ancora garantiti vitto e alloggio oppure dovrà restituire dei soldi all’Agenzia che dovrebbe garantire il diritto allo studio. È uno studente la ragazza che lavora, sottopagata o in nero, senza forza contrattuale, per pagarsi gli studi; studentessa e allo stesso tempo produttrice di ricchezza per una città che la sfrutta come affittuaria di una stanza in centro. Così com’è uno studente il migrante che, perdendo la possibilità di accedere alla borsa di studio, perderà il permesso di soggiorno e sarà costretto a tornare al suo Paese d’origine. Gli studenti sono consumatori; gli studenti non soltanto stanno a casa a studiare, come vorrebbe qualcuno; gli studenti – per esempio – vengono sfruttati nei grandi eventi che la città offre come vetrina di sé, eventi che tutti conosciamo e che guadagnano proprio sul lavoro non contrattualizzato.

Il movimento del 2010

Conoscendosi, semplicemente, molte delle persone che hanno preso parte alla mobilitazione hanno scoperto che esiste un orizzonte comune a cui tutte le loro esistenze si riferiscono: quello della precarietà – che non va più intesa in senso esclusivamente economico, ma come precarietà tout court, progettuale, esistenziale. Pensiamo alla violenza del ricatto di Pomigliano, la stessa con cui le politiche di austerità nazionali ed europee si abbattono sui precari, sulle piccole imprese e sul “popolo delle partite Iva”. Esiste un’incredibile pluralità di contesti in cui si subiscono quotidianamente ricatto, sfruttamento, violenza. Contesti che non vogliono più essere circoscritti.

La costituzione di un fronte unitario, non più diviso dalla vertenzialità delle singole cause, non è certo cosa semplice: richiede la composizione di soggetti differenti, la messa in comune di istanze considerate finora identitarie; e tuttavia la scomposizione e ricomposizione del tessuto sociale appare come l’unica alternativa percorribile a dispetto delle politiche dei governi nazionali e della Banca Centrale Europea. Si tratterebbe di ricomporre diversi soggetti che non si definiscano solo per reddito o posizione (dunque secondo le categorie tradizionali), ma anche in un conflitto per la conquista di spazi che eccedano la mentalità del profitto, conflitto tra stasi e movimento, tra mantenimento dei privilegi e ricerca di diritti per tutti, tra gerarchizzazione capillare e mobilità sociale.

Contro i molti che sono ancora arroccati nella difesa dell’esistente, c’è una parte del movimento che pensa che ci sia un altro futuro da scrivere, non austero né precario.

Con la coscienza piena del fatto che una lotta del genere non trova possibili alleati tra le fila della sinistra istituzionale, che piuttosto si incaricherà – con ogni probabilità – di gestire la transizione dell’università dal pre-Gelmini al post nella maniera più indolore possibile (il pensiero va al diessino Berlinguer, sponsor accanito del processo di Bologna).

E se nel 2008 il movimento cercava un’astratta unità che arrivasse dallo studente borsista al rettore, nell’ambito dunque circoscritto del mondo universitario, oggi la gran parte dei soggetti in mobilitazione rifiuta l’idea istituzionale corrente di università, non combatte soltanto la prospettiva Gelmini; oggi si rifiuta quel significato del “pubblico” che prevede contribuzione (pubblica) gestita e messa a profitto da istituzioni miste pubblico-private. Il movimento del 2010 vuole costruire a partire da sé – ma con tutti i soggetti che vogliano collaborare – nuovi luoghi di circolazione del sapere, dunque nuove definizioni per l’università.

L’università come campo del conflitto

In questo contesto l’occupazione della facoltà di Lettere a Perugia ha indicato, con una pratica d’azione molto concreta, l’università come campo immediato di conflitto.

Il fatto che sia proprio l’università a muoversi per prima (e senza interruzioni) non è casuale, né è frutto dell’odioso cliché – tornato di gran moda – secondo cui gli studenti si sono sempre agitati e sempre lo faranno. La mobilitazione parte da qui perché qui non ci sono privilegi già acquisiti da perdere: non ci sono stipendi, né anni di anzianità, né la prospettiva di una pensione certa; piuttosto si vive della triste certezza che le politiche europee degli anni zero non concedono alcuna prospettiva che non rientri nell’orizzonte, tanto concettuale quanto reale, del precariato. La pratica della riappropriazione degli spazi, dei tempi, della vita e della cultura che si produce all’interno degli atenei tramite i seminari, i laboratori, le lezioni tenute da ricercatrici, precari o dagli stessi studenti diventa immediatamente conflitto. Diventa conflitto tra un sapere parcellizzato in corsi liofilizzati della durata di due mesi e la voglia di conoscere e vivere il proprio tempo secondo i propri desideri, e di ricomprendere il sapere come elemento essenziale del mondo della vita di ognuno. Diventa conflitto tra un’università i cui corsi sono pensati per creare dei prodotti sufficientemente maturi da essere immessi nel circuito della produzione (lo stesso che li finanzia) e un’università finalmente viva, perché gestita da chi la riempie, la muove e la arricchisce tutti i giorni. Il conflitto profondo è tra la libertà d’accesso a uno dei luoghi deputati alla produzione della cultura e l’arroganza di chi vuole restringerne l’utilizzo servendosi di una invadente capillarizzazione delle istituzioni gerarchiche ed autoritarie. Si tratta, in definitiva, di una lotta tra la libertà delle persone e del sapere e l’arroganza di privati e fondazioni, di Confindustria e della Conferenza dei rettori. Si tratta di combattere l’idea di un’università che esaurisce la propria funzione nel creare “risorse umane” da lasciare capitalizzare a terzi, per rivendicarne il vero scopo, il vero utile: quello di creare delle libere ricchezze, a disposizione di tutti. Ma gli studenti non sono soli. Dopo gli scontri del 14 dicembre possiamo dire, con Franco Berardi, che “l’insurrezione europea […] è il levarsi in piedi di una generazione, è la dichiarazione di autonomia dell’intelligenza collettiva dalla putredine di un sistema corrotto, violento, ignorante e moribondo. È il cambio di clima culturale che annuncia un decennio di conflitto e di costruzione di un mondo libero dallo sfruttamento”.

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“I compartecipi e gli arrabbiati” – Dossier Università/ micropolis

di Renato Covino

Al momento in cui scriviamo non sappiamo se “la riforma” Gelmini concluderà il suo iter parlamentare.

L’esito favorevole a Berlusconi del voto di fiducia e l’impossibilità d’imboscate al Senato deporrebbero a favore di tale ipotesi. Ma, si sa, il futuro è nelle mani di Giove e il casino in cui versa la politica italiana induce a pensare che in ogni caso ci saranno ulteriori contorcimenti.

D’altro canto è già stato rilevato che la legge è una sorta di mostro giuridico. Consta di 25 articoli e di 500 commi, che per buona parte hanno bisogno di regolamenti attuativi. Prima che divenga operativa occorreranno mesi di lavoro e di discussione, scontando nuove proteste.

Tuttavia, il dibattito sulla “riforma” ha già sortito i suoi effetti. Oggi nessuno ne mette in discussione i cardini eccetto gli studenti, tuttavia al centro della loro protesta non è tanto l’articolato della legge, quanto una condizione giovanile destinata a diventare sempre più precaria e incerta. Non a caso il dibattito si è concentrato soprattutto sul “furto di futuro” che il Governo, le politiche neoliberiste e le generazioni precedenti hanno realizzato nei loro confronti. I punti controversi, semmai, sono relativi alla posizione dei diversi spezzoni della corporazione, in rapporto alla nuova definizione dell’istituzione e ai finanziamenti messi a disposizione della struttura.

Quali sono i punti condivisi? Il primo, e più evidente, è la fine dell’università di massa, ossia del diritto per tutti all’istruzione superiore. Per quasi un quarantennio questo concetto, una delle eredità del ‘68 – che non a caso viene demonizzato – è stato sostanzialmente condiviso. L’università non era solo il luogo della riproduzione delle classi dirigenti, intese in senso lato, ma anche un pezzo dello stato sociale.

Questa ispirazione è stata messa in soffitta da tutti, sia da destra che da sinistra, sostituita da quella viscida e classista di “meritocrazia”. Non è un fenomeno solo italiano, ma europeo.

La punta di lancia è la Gran Bretagna che triplica le tasse da 3.000 a 9.000 sterline. In Italia si prevede una riduzione degli iscritti che andrebbe dagli attuali 1,5-2 milioni ai circa 700-800mila. Ne consegue un sostanziale dimagrimento delle strutture: meno professori, meno sedi, ecc.  Ovviamente ciò presuppone anche una struttura più “elastica” – e quindi l’aumento dei precari – gerarchizzata e territorializzata, con l’intervento di enti locali, fondazioni bancarie, ecc. Chi investirà avrà un vantaggio competitivo maggiore, gli altri avranno università di minore caratura e con titoli di minore valore. L’ingresso dei privati nei consigli d’amministrazione è finalizzato a tale progetto.

Non facciamoci confondere però: dietro questo disegno non c’è solo e tanto il governo di centrodestra, che al momento ha il problema di fare cassa, quanto Confindustria, il sistema bancario, ecc. oltre che la conferenza dei rettori (a proposito della campagna contro i baroni) che è la vera ispiratrice della legge.

A ciò si collega la questione della ricerca. È vero che da anni le risorse per la ricerca stanno diminuendo e si stanno differenziando tra le diverse università, oltre che tra i vari settori disciplinari. E, tuttavia, l’obiettivo è deprimere la ricerca di base per favorire quella applicata, finalizzata non solo alla produzione, ma più in generale al funzionamento economico del sistema. Insomma la ricerca di base, soprattutto quella non finalizzata a tali obiettivi, è considerata un lusso, a meno che non sia indirizzata alla riproduzione dell’ideologia dominante.

Sono questi gli assi del disegno di legge Gelmini. Al suo interno si collocano – dicevamo – tutti i soggetti in campo. Ognuno cerca di ritagliarsi, a torto o a ragione, uno spazio. Prendiamo gli studenti organizzati, quelli che partecipano alle elezioni: il loro obiettivo è di contrattare, all’interno del quadro dato, piccoli miglioramenti della condizione studentesca (bloccare l’innalzamento delle tasse, appelli più frequenti, servizi migliori, ecc.). Analoga è la situazione dei ricercatori di ruolo, che puntano sostanzialmente ad avere concorsi riservati. Simile è la situazione per le singole sedi, che cercano di ottenere qualche milione in più per il loro funzionamento e che, in sostanza, hanno deciso di rivolgersi ai diversi poteri locali (politici ed economici) per assicurasi la sopravvivenza.

Al di là delle apparenze, insomma, esiste un diffuso senso comune di cui tutti sono compartecipi. Il punto in discussione è se la “riforma” debba essere a costo zero oppure occorra metterci sopra qualche soldo, decidendo, nel caso, a favore di chi. Come abbiamo già scritto, fuori da tale quadro ci sono solo una parte dei giovani che frequentano l’università e i precari. C’è, però, nella loro protesta un elemento di debolezza che sarebbe sciocco non sottolineare.

Si tratta di una rivolta che parte da una condizione umana senza futuro, anzi con un futuro privo di qualunque speranza. L’aggancio con la riforma è per molti aspetti casuale, non centrale.

Il movimento non riesce, come non è mai riuscito nel passato, a divenire politico, di massa, organizzato, non sembra in grado di strutturarsi nazionalmente, di darsi una caratterizzazione che superi la dimensione della protesta, caratterizzandosi come mo-mento permanente di contestazione di un’istituzione ancora centrale nelle società contemporanee. È quindi destinato ad esaurirsi e a risorgere – come un’araba fenice – tra qualche anno. Intanto i processi degenerativi rischiano di andare avanti. Sperare che li blocchi la sinistra politica è un’illusione, come c’è poco da sperare da un cambio di governo.

Se potessimo dare un consiglio ai giovani che in queste settimane si sono battuti nelle strade, nelle facoltà, sui tetti dei monumenti, sarebbe quello di contare solo sulle proprie forze.

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!Mondo Precario!” – Dossier Università/ micropolis

di Rosario Russo

Protagonista indiscusso di ogni scelta politica di questo Governo, lo “spettro” della precarietà continua a vagare indisturbato per il Paese mentre, oltre a diventare sempre più materiale, assurge a paradigma esistenziale per molti lavoratori. Lo sanno bene i ricercatori precari dell’Università di Perugia, che durante i giorni della mobilitazione contro le politiche del Governo su Università e diritto allo studio, sono scesi in piazza al fianco degli studenti.

Una presenza permanente è stata quella dell’Associazione Precari della Ricerca (APR). Abbiamo intervistato un loro portavoce, Pietro Candori, ricercatore precario di chimica dal ‘99. Candori afferma con forza che “il sistema della ricerca nel nostro Paese va avanti da anni, prevalentemente grazie ai lavoratori precari: ricercatori, tecnici, docenti, che svolgono la loro attività con borse di studio o con le forme contrattuali più disparate, sempre a scadenza e con periodi anche lunghi di disoccupazione, senza ammortizzatori o sussidi, e senza contributi pensionistici”. Nell’ateneo perugino, secondo alcune statistiche (va ricordato che non esiste ancora un’anagrafe dei precari della ricerca presso lo Studium perugino) sono circa 1200 le figure precarie tra assegnisti e dottorandi, che, con sussidi e contratti a termine, mandano avanti la “baracca”, come possono.

Candori avverte che da quest’anno, secondo il bilancio d’Ateneo, al netto dei tagli di Tremonti, sono state ridotte del 70% le borse di dottorato, e dell’80% gli assegni di ricerca, per non parlare del pesante blocco del turn-over causato dalla riforma Gelmini. Altro che meritocrazia e lotta ai baroni!

Tutto questo si tradurrà in un continuo incentivo allo sfruttamento dei più deboli: tempo e fatica utili solo ai curriculum degli strutturati, nessun investimento in reclutamento, e tantomeno in stabilizzazioni, cancellando di fatto opportunità e prospettive future. “In questo stato di cose – afferma Candori – l’impegno che ci siamo prefissati è stato quello di evitare di sobbarcarci corsi che non ci spettano. Non sostituiremo quindi né ricercatori indisponibili, né ordinari. Chiediamo più servizi di qualità, più merito, più strumenti oggettivi da parte di commissioni esterne che possano valutare al meglio il nostro lavoro di ricerca in vista dell’abilitazione, dopo i 6 anni di dottorato e non oltre. Contrari ad un sistema che permetterebbe a pochi di gestire tutto il potere dell’ateneo (basti pensare alle figure esterne nel consiglio d’amministrazione, o al maggior potere nelle mani del rettore), chiediamo – continua Candori – una nostra rappresentanza all’interno del processo decisionale dell’ateneo, in modo da salvaguardare i nostri diritti e avere maggiore voce in capitolo sulle scelte politiche di gestione”. Dal 2008 ad oggi, spiega Candori, si è “chiesto al rettore Bistoni di prendere una posizione netta contro questo stato di cose, per cercare di trovare soluzioni programmatiche in nostro favore; molta solidarietà da parte sua (quella non costa nulla) mentre nessuna risposta è arrivata a proposito della precarietà, del problema concreto”. Sembra di capire che le preoccupazioni del rettore vanno verso altre scelte strategiche, come ad esempio il reperimento di risorse da impiegare nel nuovo polo di medicina all’ex Silvestrini: insomma come un novello Caronte “il magnifico” continua impavido a cercare di traghettare (e alla svelta!) verso nuovi parametri l’ateneo perugino.

Assassinare i precari della ricerca sfilandogli dalle mani qualunque possibilità di affermazione professionale, fa parte ormai di un disegno regressivo molto pericoloso, all’opposto, rompere le mura del privilegio, della corporazione feudale, del sistema di reclutamento impenetrabile e “cooptativo”, liberare il merito e le progettualità per investire nell’ingresso di nuovi ricercatori, rimarranno mete di un mondo precario che non vuole affatto arrendersi.

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“Se la cultura non paga…” – Dossier Università/ micropolis

di Saverio Monno

da micropolis

“La cultura non paga”, è parte di quel superfluo di cui può farsi tranquillamente a meno. Il Governo ha cercato dielo in tutti i modi possibili ciò che pensa dello studio, dell’arte, del sapere in generale. Non è un caso se dopo i crolli di Pompei e la cura da cavallo riservata alla scuola pubblica, anche l’università stia soccombendo lentamente sotto il fuoco incrociato del binomio Gelmini Tremonti. Il boccone più amaro da mandare giù, però, resta lo smantellamento del diritto allo studio, un atto criminale che riesce a far passare in secondo piano qualunque altra vigliaccheria questo Governo abbia compiuto.

Per effetto dei tagli, nella nostra regione sono stati circa duemila i ragazzi che hanno corso il rischio di dover abbandonare l’università. Solo il provvidenziale sblocco di alcuni fondi regionali, sommati a risparmi propri dell’Adisu, ha permesso di evitare il peggio e nonostante sia ormai certo che il diritto allo studio sarà garantito a tutti, ci sarà lo stesso da tirare la cinghia: dei 4529 studenti idonei, infatti, solo 1928 ragazzi riceveranno borse di studio complete, a tutti gli altri l’Adisu non sarà in grado di garantire altro che i servizi essenziali. La situazione insomma è grave e l’approvazione della riforma Gelmini in Senato – al momento in cui scriviamo il provvedimento non ha ancora affrontato il passaggio in aula, ma sospettiamo che l’esecutivo non avrà incontrato grossi ostacoli a Palazzo Madama – lascia immaginare che la situazione sia destinata a peggiorare.

Per cercare di capirne di più abbiamo incontrato il Commissario straordinario dell’Adisu, il professor Maurizio Oliviero, che ci ha aiutato a fare chiarezza su scenari attuali e futuri del diritto allo studio in Umbria.

Il collegio di agraria occupato, le proteste sul tetto della mensa, il momento è talmente nero che definirlo pessimo è quasi ottimistico. Sappiamo quali siano le condizioni dei ragazzi e quanto le loro famiglie facciano fatica a reggere il peso della situazione, quali sono invece le condizioni del diritto allo studio in Umbria? Come sta l’Adisu?

L’Adisu è un ente che ha avuto ben quattro anni e mezzo di commissariamento che sono serviti a fare due cose fondamentalmente: risanare il bilancio e sviluppare politiche per il diritto allo studio vicine ad un’idea moderna di servizio.

Sono convinto che il diritto allo studio non può essere inteso come un po’ di soldi, un posto dove dormire ed un pasto da mangiare. Non è carità. Per cui, oltre alle borse, con “diritto allo studio” deve intendersi tutta una serie di servizi che contribuiscono ad assicurare a tutti i meritevoli e bisognosi quelle azioni necessarie al completamento della loro dignità di studenti. Per fare questo abbiamo messo a disposizione, oltre che un contributo per il pagamento delle tasse universitarie, delle condizioni di facilitazione per l’acquisto dei libri, un percorso di assistenza che fosse quello dell’orientamento e del tutoraggio, ma anche l’accompagnamento psicologico, il supporto sanitario, e così via. Oltre ai meritevoli ed ai bisognosi però, qui c’è una comunità intera di studenti. Per questo negli anni passati abbiamo pensato ad un passaggio ulteriore: va bene continuare a garantire al 100% degli aventi diritto una borsa di studio, ma bisogna aprire i servizi alla generalità degli studenti. Oltre a “lo Zaino”, il servizio di supporto psicologico di cui dicevo, abbiamo pensato al servizio del “Cercalloggio”. Non siamo immobiliaristi, il “Cercalloggio” è solo uno strumento che ci consente di “stare sul mercato” per valorizzare quella parte sana della città, che normalmente viene inserita nel calderone generale degli sfruttatori e degli affitti in nero. Siamo l’unico ente che dice agli studenti: “Sei borsista e vuoi un contributo per l’affitto? Per avere questo contributo, mi devi depositare un contratto formalmente registrato, altrimenti perdi questo beneficio”. Anche chi non ha diritto ad alcun contributo, però, può rivolgersi alle nostre strutture per avere un aiuto a trovare un alloggio dignitoso.

Ci sono i tagli del Governo, però, e il Ddl Gelmini…

È un momento difficile. L’ente sta incontrando parecchie difficoltà. Ma si tratta di difficoltà che non derivano solo dai tagli (annunciati!) del Governo. Il “fondo di intervento integrativo per l’anno 2010” ammonta a circa 96milioni di euro – quasi un terzo della somma messa a disposizione per il 2009. Ora, in questa situazione, il riparto per la Regione Umbria è passato da una somma di poco superiore ai 9,3 milioni di euro ad appena 3,5 milioni. Il problema vero, però, è che mancano all’appello pure quei finanziamenti che il Governo si era impegnato a garantire. Per cui i tagli si moltiplicano. Mi spiego meglio. Generalmente, verso la fine di ottobre, lo Stato erogava il saldo delle borse per l’anno precedente e pagavamo agli studenti la famosa “seconda rata”. I fondi statali, insomma, arrivavano sempre dopo che noi avevamo pagato la “prima rata” delle borse che erogavamo, invece, in parte con piccole anticipazioni statali, in parte con fondi regionali. Quest’anno, però, il Governo (o meglio il Miur) mi ha comunicato che per problemi di cassa non è in grado di assicurare il saldo delle borse dell’anno scorso. Ma quei soldi erano comunque impegni di spesa che loro avevano già assunto: questi soldi allora che fine hanno fatto? Mi dicono che potrebbero arrivare tra gennaio e febbraio. Mi dicono… Intanto però – anche in questo caso per problemi di cassa – non ci vengono consegnate nemmeno le anticipazioni del 2010/2011, sui già 3,5 milioni scarsi previsti. L’unica cosa che abbiamo a disposizione, allora, oltre ad un po’ di risparmi dell’ente (tanto per citare il capitolo di spesa più grosso, anni fa avevamo concordato con la Regione la soppressione del consiglio d’amministrazione arrivando a risparmiare qualcosa come 5-600 mila euro l’anno), è il fondo della Regione, ma questo serviva per colmare il 30-40% delle borse.

Il Governo però continua a ripetere che ha inserito nel “fondo di intervento integrativo per il 2010” altri 100 milioni di euro. Il ministro Gelmini lo ha detto in più di un’occasione.

In realtà il ministro questi 100 milioni per il diritto allo studio li ha messi in programmazione per il prossimo anno, ma questo vuol dire solo che avremo una cifra che non si allontana molto dai 96 milioni di euro stanziati per quest’anno. Anzi, c’è anche un dubbio, che puzza un po’ di fregatura: per la prima volta, questi cento milioni cambiano il titolo! Non più “borse di studio”, ma “prestiti d’onore e borse di studio”.

Qual è la differenza? Che il ministro anticipa la sua malsana idea di diritto allo studio e il fondo del prossimo anno per metà sarà destinata ai prestiti d’onore e per l’altra metà alle borse di studio. I prestiti d’onore però non sono borse di studio, ma prestiti a tassi e condizioni “agevolate” che andranno ad indebitare le famiglie. A conti fatti significa che il “fondo integrativo”, il prossimo anno, è teoricamente non di 100, ma di 50 milioni di euro.

Quindi, se tutto andrà bene, immagino che l’Adisu passerà dai 3,5 milioni di quest’anno a 1,5-1,6 milioni di euro. Con una somma del genere non copriremo nemmeno il 10% degli aventi diritto. Il ministro parla di cifre, dice che hanno garantito il 100% delle borse di studio, ma non è vero. Il bilancio dell’Adisu lo faccio sui carteggi che arrivano dal ministero, su dati ufficiali quindi. In questo periodo iniziamo a pensare anche al bilancio preventivo per il prossimo anno, ma se le cifre sono queste come faccio a stilare un bilancio? Se dovessi limitarmi a trascrivere cifre, e pensassi di attingere fondi dai numeri del famoso “decreto Tremonti”, devo immaginare che il prossimo anno non erogherò borse se non al 7- 8% degli aventi diritto e che addirittura per il 2012-2013 avrò “zero” in cassa. Si, certo, arriva sempre qualcuno a dire che poi il ministro interviene, ma in queste condizioni come faccio a fare una programmazione?

Giorni fa accennava alla possibilità di fare ricorso…

Anche laddove ci fossero dei tagli, la legge stabilisce che un ente non può ricevere meno dell’80% di quello che ha ricevuto l’anno precedente. È proprio sulla base di questa norma che gli enti possono fare bilanci preventivi.

L’anno scorso, ad esempio, abbiamo ricevuto 9,3 milioni di euro, in virtù del fatto che siamo riconosciuti a livello nazionale come uno dei primi enti per il diritto allo studio.

Conseguentemente, non avendo motivi di prevedere sconquassi, per l’anno in corso, abbiamo messo a bilancio 7,8-7,9 milioni di euro, considerando già la diminuzione del 20 per cento. La legge mi dice questo e preparo il bilancio con questa certezza. La Gelmini invece quando ha distribuito i fondi, non ha tenuto conto di quel vincolo normativo. Anche a fronte di tutti i tagli, avrei dovuto ricevere non meno di quei 7,8-7,9 milioni che avevo preventivato, non 3,5 milioni. Con i tagli ho ricevuto il 60% in meno e non il 20% prescritto dalla legge. Chiaro quindi che presenteremo un
ricorso.

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Cronache e prospettive – durante e dopo il 14/12

Cronache

La solitudine dei bravi ragazzi- di Loris Campetti

Roma 14 Dicembre – Un racconto da Brescia

Chi sono i black block? Dove sono i black block?

Cronaca di un pomeriggio di guerriglia- di GiacomoRusso Spena

Altroché professionisti della guerriglia: un’armata brancaleone con un cuore, un’anima e un cervello!

Roma – 14 Dicembre 2010

Prospettive

Dopo il 14 dicembre – di Toni Negri

Abbandoniamo le illusioni, prepariamoci alla lotta – di Franco Berardi “Bifo”

Il giorno di Mister Starve: un luminoso martedi di socntro tra montecitorio e la piazza

Il fuoco della conoscenza – di Gigi Roggero

In piazza c’era la rabbia di migliaia di giovani – di Maria Rosaria Marella

14/12 “Usa la forza!” Dicevano i maestri Yoda e Monicelli – di Luca Tornatore

Dopo il futuro – di Franco Berardi “Bifo”

Le risposte alla lettera di Saviano a* ragazz* del movimento

Scendere dal pulpito – di Alessandro Dal Lago

Lettera a Roberto Saviano – di Femminismo a Sud

I media e l’estetica del disagio – di Femminismo a Sud

Uno studente risponde a Saviano

A proposito di cortei e buoni maestri – di Sandrone Dazieri

Saviano il telepredicatore – di Valerio Evangelisti

Caro Saviano (senza rancore)

Risposta a Saviano da uno dei tanti che era a Roma

Risposta degli studenti a Saviano e alla sua lettera

Savianeide – di Augusto Illuminati

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dopo il futuro

«Basta così, non possiamo sopportare oltre». È scritto sullo striscione che apriva il corteo dei rivoltosi di Atene, stamattina, 15 dicembre. «La storia si scrive nelle strade» dice un manifesto attaccato dappertutto, e proprio nelle strade si segnalano già adesso i primi scontri. Gruppi di giovani staccatisi dai cortei hanno preso d’assalto le sedi di alcune banche e lanciando bottiglie molotov dato fuoco a diverse macchine. Fuori dal parlamento un ex ministro greco è stato inseguito e picchiato da dimostranti.

Primi fuochi dell’insurrezione europea. Un grande artista dei nostri tempi, un fotografo cortese che si chiama Tano d’Amico, a chi gli chiedeva se i rivoltosi di questi giorni gli ricordavano il ’68 o il ’77 ha risposto (genialmente) che gli ricordano i rivoltosi del 1848. La primavera dei popoli, per alcuni “la prima grande battaglia fra le classi in cui è divisa la società moderna” secondo Karl Marx.

1848. Prima di tutto, prima della demenza burocratica e totalitaria dei comunismi novecenteschi, prima dei fanatismi nazionalisti, quando l’autonomia della società dal capitale appariva nelle sue prime forme. Potenza infinta del lavoro, miseria del capitale. Ora siamo nuovamente a questo punto. L’infinita potenza del lavoro cognitivo e la miseria paranoide del capitalismo finanziario. E il luogo di questo rovesciamento del mondo è di nuovo l’Europa.

La generazione cognitaria che occupa le strade d’Europa in questi giorni non ha alcuna vocazione per la violenza. I precari cognitivi, ricercatori studenti scienziati poeti e artisti che hanno preso la strada, sono portatori di sapere, di innovazione, di educazione e di civiltà.

Le politiche liberiste e i governi mafiosi la civiltà la stanno distruggendo. E noi la dobbiamo difendere.

A questo scopo si è dovuto mettere in moto un processo inarrestabile di destabilizzazione delle politiche distruttive. Per questo a Londra come a Roma come oggi ad Atene abbiamo dovuto scendere in strada.

Il sindaco Alemanno, un capo manipolo che assume picchiatori come dirigenti comunali, ha dichiarato il suo stupore perché i manifestanti del 14 dicembre sembravano “organizzati ed esperti”. Certo che lo sono. I precari cognitivi sono gente esperta e organizzata per definizione, sono la generazione più esperta che la storia abbia mai conosciuto, perché sono costitutivamente interfacciati con la rete. E’ il popolo di Assange e di Anonymous, è il popolo di Luther Blissett. Ha un milione di facce e ne ha una sola, irriconoscibile perché cangiante, mutevole, indefinibile, imprendibile, in giudicabile.

E’ chiaro che l’establishment politico, economico e finanziario non ha alcuna intenzione di ascoltare: non capisce più nulla, ha il cervello in pappa. La sola cosa che sanno fare è accaparrarsi famelicamente risorse che non gli appartengono.

Non c’è nulla da discutere con questa classe dirigente, occorre esautorarla. Ignorarla, non rispettando la sua legge.

La senatrice Finocchiaro, acuta stratega del ventunesimo secolo ha chiesto: “chi sono tutti questi infiltrati, chi li ha mandati e chi li paga?”. Dovrebbe rassegnarsi all’amara realtà: il 14 dicembre a Roma c’erano centomila infiltrati. Quanto alla domanda “chi li paga”, il problema è proprio questo. Non li paga nessuno, eallora hanno deciso di mettersi in proprio.

Se la senatrice Finocchiaro è alla ricerca di qualche venduto farebbe meglio a guardare a casa sua, nel pozzo nero di Montecitorio, o nel pozzo grigiastro del suo partito.

Ci troverebbe ad esempio un tal Calearo, l’industriale che Veltroni ha proposto come simbolo del suo nuovo corso, il confindustriale che il PD ha portato alla Camera, che ieri ha votato per il suo nuovo benefattore.

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Assemblea plenaria – Giovedi 16 ore 17:30 – Aula i/2 Dip. Matematica

Ci vediamo per l’assemblea domani, giovedi 16, alle ore 17:30 presso l’aula i/2 del dipartimento di matematica e fisica per fare il punto della situazione e preparare le prossime mobilitazioni.

accorriamo numeros*!

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Dopo il 14 dicembre

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di TONI NEGRI

Che con il 14 dicembre la Repubblica abbia versato nell’agonia, sembra chiaro alle gazzette. In effetti la situazione è grave. In crisi è la macchina costituzionale. La recessione è alle porte e copre un altro pericolo, probabilmente ancora più importante e sottaciuto, che è la secessione del Nord. Tutto questo nella salsa di un’invadente corruzione, che non è senz’altro solo quella denunciata da Travaglio o da Fini, ma la disgregazione interna del meccanismo di equilibrio e rappresentanza costituzionale.

Questa crisi è stata fin qui gestita interamente dalla destra. Inutile soffermarsi su cosa sia stato il berlusconismo: una reinvenzione populista, transitoria ma efficace, del governo del capitale nella fase di transizione dalla guerra fredda all’evento del declino del governo imperiale americano. Le alleanze Berlusconi-Putin o Gheddafi sono molto meno caricaturali e scandalose di quanto le si voglia fare apparire; le pasoliniane notti di Salò del nostro primo ministro, adeguate al decadimento morale delle dirigenze politiche dell’occidente. Non sappiamo come andrà a finire: quello che sappiamo è che la forza per rispondere alla crisi, dal punto di vista proletario, è stata insufficiente, che la sinistra parlamentare non è solo debole ed inefficace ma che funziona benissimo come contraltare di uno schieramento moderato rissoso e in crisi.

Qui è necessario rompere ogni continuità. Sembra chiaro che il dibattito politico d’ora in poi debba svolgersi sui temi di un programma costituente, irriducibili all’attuale realismo della sinistra, e debba trovare forme organizzative adeguate alla nuova composizione sociale della resistenza dei lavoratori della mano e del cervello. È bizzarro, ma non inusuale, accorgersi che ora la lotta democratica sia già confusa con quella sovversiva, che il vuoto di democrazia è già stato fatto e che dunque sovversione è oggi costituzione. Il Pd non è agibile soltanto sui due terreni sui quali propone, per così dire, linee politiche: il “centrismo” veltroniano o la “socialdemocrazia” dalemiana – non lo è neppure sul terreno Vendola. Il problema, soprattutto con Vendola (che senz’altro molti di noi sentono come più vicino), non è tanto quello di non discutere con lui ma di non considerare il dibattito con lui come un’arma che possa trasformare il Pd. Di fuochi di paglia ne abbiamo visti molti, non da ultima la disillusione obamaniana.

Dal punto di vista del programma, la discussione che si è aperta nei movimenti sembra esser proceduta moltissimo. Il programma è quello della riappropriazione del comune. L’università è un comune: gli studenti, nella lotta contro la Gelmini (ma anche gli studenti inglesi, francesi, ecc.) lo hanno mostrato. Nelle fabbriche invece, dove si continua lottare (eccome! malgrado la crisi) sembra che questa discussione non sia ancora riaffiorata. La Fiom dovrebbe rendersene conto. Ma il problema centrale (ed è su questo che né il Pd, né Vendola stanno agendo) è quello della riappropriazione comune del welfare pubblico. Le lotte francesi sulle pensioni hanno dato la misura di come sia possibile procedere unitariamente su questo terreno. È questo il terreno decisivo: dal pubblico al comune, dove i temi della riproduzione della forza lavoro e quelli della diffusione produttiva del sapere si congiungono alla riappropriazione e alla gestione democratica del comune.

Dal punto di vista organizzativo, sono solo le lotte ed i compagni che le vivono, che possono indicare un sentiero percorribile. Ma è fuori dubbio che, sempre di nuovo, quando si aprono le lotte, il tema di un’avanguardia che permette al movimento di trovare spazi e tempi adeguati alla sua espressione, diventa centrale. Le vecchie teorie qui non c’entrano più. C’entra l’esperienza attuale, la necessità per il movimento di ricentralizzare la sua molteplicità. Il movimento sa che non organizza soltanto la miseria ma soprattutto la povertà, cioè la potenza produttiva che è messa fuori, esclusa dalla capacità di agire dei lavoratori. La dignità del sapere e del lavoro è in gioco. È questa la centralità che interessa. Organizzare questa centralità significa costruire organizzazione cooperativa delle lotte e dell’elaborazione programmatica. Dare continuità e solidità a questa organizzazione è oggi il passaggio da compiere.

Si illude chi pensa che la pianificazione delle lotte possa partire da un ordine partitico o da un’occasione elettorale. I rapporti di forza non sono tali da permetterlo e quand’anche lo fossero, di nuovo sarebbe quel fuoco di paglia cui sopra accennavamo. È solo la rete che illumina il cammino delle lotte. La centralità però va ricostruita, anche in rete. Quanto è accaduto in Francia nel periodo delle lotte sulle pensioni è stato molto indicativo. C’era qualcuno nei giorni scorsi che diceva: oggi è come prima della rivoluzione francese, non c’è politicamente altro che l’ancien régime, poi non potrà esserci altro che un’assemblea costituente di tutti i ceti – che vuol dire con l’estrema maggioranza dei poveri. È questo salto che i movimenti devono governare.

Davanti a noi abbiamo il baratro di una recessione governata dagli epigoni del berlusconismo, che va a coprire l’effettiva secessione del Nord. Se non altro, Fini e Casini hanno in mente questa svolta sciagurata. Non sembra che il Pd ne sia ancora accorto, meglio, pensa che non si possa governare senza la Lega. Ma è su questo che bisogna intendersi: perché la Lega non è meglio ma peggio del berlusconismo, perché la Lega è la negazione totale della nuova composizione sociale del lavoro, perché la Lega è l’odio sanfedista rinnovato, è la reazione così come si presenta nella postmodernità.

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